Che cosa sta rivelando l'ondata di Omicron sull'immunità umana

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L’affannosa ricerca degli immunologi per capire come proteggerci dalle molteplici varianti di SARS-CoV-2, presenti e future, ha portato anche a una migliore conoscenza delle reazioni immunitarie del nostro organismo, con alcune sorprese.

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Nessuno ha previsto quanto velocemente Omicron avrebbe dilagato nel mondo. Anche se l’ondata della variante sta cominciando a diminuire in molti paesi, il numero di casi in tutto il mondo è ancora in aumento. L’ultima settimana completa di gennaio ha visto circa 23 milioni di nuovi casi confermati; i picchi precedenti hanno raggiunto circa cinque milioni a settimana. Gli affannati funzionari della sanità pubblica stanno ancora lottando per limitare la diffusione del virus in modo che le persone con COVID-19 non sommergano gli ospedali.

Omicron ha anche presentato agli immunologi un nuovo e urgente rompicapo. I dati iniziali suggeriscono che i vaccini esistenti, progettati facendo riferimento al SARS-CoV-2 originale, non forniscono molta protezione dall’infezione con la variante, anche se sembrano ridurre il rischio di ospedalizzazione o morte. La protezione fornita da due dosi di un vaccino a RNA messaggero scende a meno del 40 per cento pochi mesi dopo la seconda dose. Ma una terza dose di richiamo sembra aiutare. Un rapporto ha trovato circa il 60-70 per cento di protezione dall’infezione a due settimane dopo una terza iniezione, e la protezione dalla malattia grave sembra forte.

“Questo è molto emozionante”, dice Mark Slifka, immunologo alla Oregon Health & Science University di Portland. Ed è anche un po’ sorprendente. Perché un terzo incontro con un vaccino mirato alla proteina spike del virus originale – quella che usa per entrare nelle cellule – dovrebbe funzionare contro questa variante, che ha più di 30 mutazioni nella spike?

La capacità del sistema immunitario umano di ricordare le infezioni passate è una delle sue caratteristiche, ma una risposta duratura non è garantita. Alcune infezioni e immunizzazioni suscitano una protezione per tutta la vita, ma per altre, la risposta è modesta e richiede richiami regolari sotto forma di richiami o nuovi vaccini riformulati. COVID-19 ha imposto al mondo la possibilità di esplorare le complessità di questo articolato e cruciale fenomeno biologico. “È un incredibile esperimento naturale”, dice Donna Farber, immunologa alla Columbia University di New York. “È un’incredibile opportunità di osservare le risposte immunitarie umane in tempo reale”

Con circa dieci miliardi di dosi di una dozzina di vaccini COVID-19 già nelle braccia delle persone, e cinque preoccupanti varianti che pulsano in tutto il mondo, gli scienziati stanno lottando per rispondere alle domande chiave. Per quanto tempo la vaccinazione proteggerà le persone? Come sarà questa protezione? E, naturalmente, come se la caverà un vaccino sviluppato contro il SARS-CoV-2 originale di fronte ad altre varianti, come Omicron?

“Siamo solo all’inizio di un’ondata di scoperte”, dice John Wherry, immunologo alla Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania a Filadelfia. Ciò che emerge sarà cruciale non solo per combattere COVID-19, ma per capire alcune delle caratteristiche più fondamentali della memoria immunitaria.

Far durare la memoria
Il sistema immunitario entra in azione subito dopo che un patogeno entra nel corpo. Ma possono passare diversi giorni prima che le cellule specializzate che prendono di mira virus e batteri si uniscano alla battaglia. Queste cellule B e cellule T lavorano per eliminare l’infezione; dopo che la lotta è finita, si ricordano dell’intruso.

Le cellule B “sono le prime a rispondere”, dice Ali Ellebedy, immunologo alla Washington University School of Medicine di Saint Louis in Missouri. Durante una prima esposizione a un agente patogeno, le cellule B che si attivano si dividono rapidamente e si differenziano in plasmacellule che producono proteine chiamate anticorpi. Gli anticorpi possono segnalare gli intrusi sospetti per la distruzione, e alcuni possono legarsi a una parte di un patogeno che impedisce a esso di infettare le cellule. Questi sono gli anticorpi “neutralizzanti”. “Sono l’unica cosa che può veramente darti un’immunità sicura”, dice Shane Crotty, immunologo al La Jolla Istitute per l’immunologia, in California. Ecco perché i ricercatori usano tipicamente la presenza di questi anticorpi come rappresentativi della protezione immunitaria.

A settembre 2020, una manciata di studi ha riferito che i livelli di anticorpi neutralizzanti stavano diminuendo nelle persone che si erano riprese da COVID-19. Alcuni esperti hanno espresso l’allarme che l’immunità a SARS-CoV-2 potrebbe quindi essere fugace.

Gli immunologi, tuttavia, non erano sorpresi. Dopo un’infezione gli anticorpi dovrebbero diminuire: le cellule B a vita breve che producono subito anticorpi muoiono rapidamente. “Questo è qualcosa che sappiamo da sempre”, dice Rafi Ahmed, immunologo e direttore dell’Emory Vaccine Center alla Emory University di Atlanta, in Georgia.

Ciò che conta è se il corpo produce cellule B longeve che possono colpire l’agente patogeno se riappare. Queste cellule si sviluppano tipicamente all’interno di strutture chiamate centri germinali, che si sviluppano nei linfonodi durante un’infezione e servono come una sorta di campo di addestramento delle cellule B. Lì, le cellule si moltiplicano e acquisiscono mutazioni. Solo quelle che producono i migliori anticorpi, quelle che si attaccano più saldamente alla superficie del virus, sopravvivono. È “quasi un processo di selezione”, dice Ellebedy.

Entro un mese circa, alcune delle cellule che producono questi super-leganti diventano cellule B di memoria che circolano nel sangue. Non producono anticorpi, ma se incontrano il virus o le sue proteine, possono dividersi rapidamente e diventare plasmacellule che lo fanno. Le altre diventano plasmacellule a vita lunga che risiedono principalmente nel midollo osseo e secernono un piccolo ma costante flusso di anticorpi di alta qualità. “Queste cellule vivono con noi per il resto della vita”, dice Ellebedy.

Un calo dei livelli di anticorpi dopo l’infezione è normale. Quello che gli immunologi vogliono davvero sapere è dove – o se – il declino si fermerà. Nell’aprile 2020, Ahmed e il suo gruppo hanno iniziato a studiare le persone che si erano riprese da COVID-19. Gli scienziati hanno scoperto che i livelli di anticorpi di queste persone sono scesi rapidamente per i primi due o tre mesi dopo l’infezione. Ma poi, dopo circa quattro mesi, i ricercatori hanno visto la curva iniziare ad appiattirsi. Hanno pubblicato i risultati relativi ai primi otto mesi, ma ora hanno dati fino a 450 giorni, e Ahmed è incoraggiato da ciò che ha visto. Finora, “guardando la forma della curva, sembra dannatamente buona”, dice. “È davvero molto stabile.”

La risposta immunitaria dopo la vaccinazione imita più o meno ciò che accade dopo l’infezione, con una differenza importante. In un’infezione da SARS-CoV-2, il sistema immunitario vede l’intero virus. I vaccini più efficaci, tuttavia, stanno usando solo una proteina virale per suscitare una risposta: la spike. E se i livelli di anticorpi si stabilizzeranno anche dopo la vaccinazione non è ancora chiaro. Wherry e i suoi colleghi hanno analizzato le risposte immunitarie in 61 persone per sei mesi dopo la loro prima iniezione, trovando che i livelli di anticorpi hanno raggiunto il picco circa una settimana dopo la seconda iniezione e poi sono scesi rapidamente per un paio di mesi. Dopo di che, sono diminuiti più lentamente.

Quel declino è stato accompagnato da un calo della protezione. Le vaccinazioni, che in alcuni paesi sono diventati ampiamente disponibili già nel dicembre 2020, hanno mostrato inizialmente un’efficacia impressionante. Ma da luglio 2021, dai rapporti hanno cominciato ad affiorare infezioni che aggiravano la protezione. I dati da Israele, che aveva lanciato un’aggressiva campagna di vaccinazione con il vaccino a mRNA di Pfizer-BioNTech, suggeriscono che la protezione di questo vaccino contro l’infezione sia scesa dal 95 per cento ad appena il 39 per cento nel corso di cinque mesi.

Questi numeri fanno temere che il vaccino stia vacillando. E i ricercatori hanno visto che, nel tempo, perde la sua capacità di tenere a bada l’infezione. Ma i vaccini hanno mantenuto la loro capacità di prevenire malattie gravi. La protezione dall’infezione potrebbe essere in declino, ma la protezione contro l’ospedalizzazione sembra reggere. “Probabilmente si avrà un’immunità protettiva per anni”, dice Crotty.

Le cellule ci salveranno
La memoria immunitaria dipende da più che semplici anticorpi. Anche quando i livelli di anticorpi calano, le cellule B di memoria possono riconoscere un invasore di ritorno, dividersi e iniziare rapidamente a sfornare anticorpi per combatterlo. E la risposta delle cellule B di memoria migliora nel tempo, almeno a breve termine. Sei mesi dopo la vaccinazione, gli individui nello studio di Wherry avevano un numero elevato di cellule B di memoria che rispondevano non solo al SARS-CoV-2 originale, ma anche ad altre tre varianti preoccupanti.

E poi ci sono le cellule T, il terzo pilastro della memoria immunitaria. Entrando in contatto con un antigene, queste si moltiplicano in un pool di cellule effettrici che agiscono per eliminare l’infezione. Le cellule T killer si dividono rapidamente per uccidere le cellule infette, e vari tipi di cellule T helper secernono segnali chimici che stimolano altre parti del sistema immunitario, comprese le cellule B. Dopo che la minaccia è passata, alcune di queste cellule persistono come cellule T di memoria.

Alcune persone potrebbero avere cellule T di memoria da precedenti infezioni da coronavirus – come quelle che causano i comuni raffreddori – che possono riconoscere SARS-CoV-2. Queste cellule potrebbero aiutare a combattere l’infezione, o anche a fermarla completamente. Uno studio ha scoperto che gli operatori sanitari che sono stati esposti a SARS-CoV-2, ma che non sono mai risultati positivi, avevano sottili segni di una risposta all’infezione. I ricercatori ipotizzano che le cellule T cross-reactive [in grado cioè di rispondere a patogeni leggermente diversi da quelli che le avevano attivate, NdR] abbiano bloccato l’infezione prima che potesse prendere piede. “Queste persone hanno avuto un’infezione in una sorta di senso più approssimativo del termine”, dice Mala Maini, immunologa dell’University College London che ha diretto lo studio. Ma “probabilmente [nel loro organismo] non c’era molto virus in giro perché è stato bloccato molto rapidamente”.

Questa idea è ancora controversa, e il fenomeno potrebbe essere raro. Le cellule di memoria in genere non possono bloccare l’infezione nel modo in cui possono farlo gli anticorpi neutralizzanti, ma non hanno necessariamente bisogno di farlo. Con COVID-19, l’infezione avviene rapidamente, ma ci vuole un po’ di tempo per causare una malattia grave. Questo dà alle cellule T di memoria un po’ di tempo per fare il loro lavoro. Quando sono ri-esposte a un virus o a un richiamo, queste cellule “vanno su di giri”, “proliferando come matte”, dice Crotty. “In un periodo di 24 ore, si può ottenere un aumento di dieci volte nel numero delle cellule T memoria.” Probabilmente il processo non è abbastanza veloce per impedire di ammalarsi, aggiunge. Ma potrebbe essere abbastanza veloce da prevenire l’ospedalizzazione.

Ed è molto più difficile per il virus trovare un modo per aggirare la risposta delle cellule T. Questo perché le cellule T di un individuo riconoscono parti diverse del virus rispetto alle cellule T di un altro individuo. Così un virus potrebbe mutare per sfuggire alla risposta delle cellule T di una persona, ma non a quella di un’altra. “La fuga non ha senso a livello di popolazione”, dice Crotty. Inoltre, le cellule T possono vedere parti del virus (o della proteina spike) che gli anticorpi non sono in grado di vedere, compresi i pezzi che hanno meno probabilità di mutare.

Diversi studi hanno scoperto che le persone che erano state vaccinate o che erano state infettate da SARS-CoV-2 avevano circa la stessa risposta delle cellule T all’Omicron che alla variante Delta, nonostante il gran numero di mutazioni. Anche le osservazioni sulla diffusione di Omicron suggeriscono che sia così. Una risposta delle cellule T potrebbe anche contribuire a guidare il fenomeno noto come “disaccoppiamento”. Nelle aree con una maggiore immunità a causa di infezioni passate o vaccinazioni, il numero di casi di Omicron è aumentato rapidamente, ma il numero di ricoveri e morti è aumentato molto più lentamente.

Evoluzione dell’immunità
Un vaccino perfetto indurrebbe una risposta immunitaria che non solo è durevole, ma anche abbastanza ampia da proteggere contro il virus mentre muta ed evolve. Con la variante Omicron che imperversa, sembra che i vaccini abbiano perso un po’ di terreno. Ma il sistema immunitario dispone ancora di una serie di trucchi per affrontare i virus che continuano a cambiare.

Uno di questi trucchi si realizza nei centri germinali. Lì, l’addestramento delle cellule B non solo migliora il modo in cui gli anticorpi si legano al loro obiettivo originale; può anche aumentare il numero di siti di legame riconosciuti, aumentando le probabilità di identificare una variante.

“Indirettamente, il successo della vaccinazione dipende da quanto è robusto il centro germinale”, dice Ellebedy. L’idea prevalente è che senza il centro germinale “non abbiamo memoria”.

Ma questo potrebbe non essere del tutto vero. Il sistema immunitario ha “un sacco di altri percorsi” che sono più sfumati e meno ben studiati, dice Stephanie Eisenbarth, direttrice del Centro di immunobiologia umana alla Northwestern University Feinberg School of Medicine di Chicago. La ricerca di Eisenbarth e dei suoi colleghi mostra che anche i topi che non hanno la capacità di creare centri germinali possono generare plasmacellule a vita lunga. Come nascano queste cellule non è del tutto chiaro, ma proprio come le plasmacellule che passano attraverso il centro germinale, queste sembrano legarsi strettamente ai loro bersagli.

I dati emergenti suggeriscono che Omicron sia, tuttavia, in grado di aggirare ampiamente gli anticorpi generati da un’infezione o una vaccinazione passata. Pfizer ha riportato un calo di 25 volte nella neutralizzazione di Omicron (rispetto al SARS-CoV-2 originale) in persone che avevano ricevuto due dosi di vaccino. Perché una terza dose di richiamo sembri in grado di riaumentare la protezione non è del tutto chiaro.

È possibile che una terza iniezione semplicemente aumenti tutti i livelli di anticorpi allo stesso modo, compresa la piccola parte che può riconoscere pezzi della proteina spike di Omicron che non sono cambiati. “Sappiamo già da alcuni dei dati rilasciati dalle aziende che gli anticorpi vengono potenziati in modo molto, molto efficiente”, dice Wherry. Ma sembra probabile che una terza dose aumenti effettivamente l’ampiezza della risposta.

In uno studio i ricercatori hanno valutato il sangue di persone che avevano ricevuto vaccini di Moderna, Pfizer-BioNTech o Johnson&Johnson per valutare l’efficacia dei loro anticorpi nel neutralizzare un virus contenente la proteina spike di varianti di SARS-CoV-2. Il sangue degli individui che avevano ricevuto una o due dosi aveva poca capacità di neutralizzare Omicron. Ma quello di persone che avevano ricevuto una dose di richiamo di un vaccino mRNA ha combattuto efficacemente la variante. La loro capacità di neutralizzazione contro Omicron era solo da quattro a sei volte inferiore a quella contro il ceppo originale.

Le persone che hanno ricevuto due dosi di vaccino hanno cellule B di memoria che possono legarsi a Omicron. È possibile che una terza iniezione spinga queste cellule di memoria a diventare cellule produttrici di anticorpi. “Uno dei compiti principali delle cellule B di memoria è quello di essere una libreria di ipotesi del sistema immunitario su come potrebbe essere una variante”, dice Crotty.

Wherry offre un’altra possibilità: il richiamo potrebbe innescare la formazione di centri germinali, innescando un’altra cascata di mutazioni tra le cellule B. “Questa è una delle cose che osserveremo attentamente”, dice.

Slifka sostiene che la prima dose del vaccino genera anticorpi che si legano bene alle caratteristiche della proteina spike che sono facilmente accessibili. Quando arrivano le dosi successive, gli anticorpi esistenti ricoprono rapidamente le caratteristiche accessibili, lasciando i bersagli meno accessibili disponibili per le cellule B.

Alla buona notizia sui richiami, tuttavia, si accompagna un avvertimento. Non è chiaro quanto tempo durerà la protezione del richiamo. I dati del Regno Unito suggeriscono che potrebbe diminuire rapidamente. Tre dosi del vaccino Pfizer-BioNTech hanno fornito inizialmente il 70 per cento di protezione. Ma entro dieci settimane, la protezione contro l’infezione era scesa al 45 per cento. E i rapporti che emergono da Israele suggeriscono che una quarta dose di richiamo non sembri elevare efficacemente la protezione. Questo suggerisce che la migliore mossa successiva potrebbe essere quella di sviluppare dosi di richiamo specifici per Omicron.

Pfizer e Moderna stanno già lavorando su versioni mRNA di tali vaccini. A gennaio, l’amministratore delegato di Pfizer Albert Bourla ha detto che un vaccino specifico per Omicron dovrebbe essere pronto per il lancio entro marzo. Entro allora, tuttavia, molti saranno già stati infettati dalla variante e avranno acquisito una certa immunità in questo modo. Pfizer sta anche lavorando su una dose che includa sia la spike originale che quella di Omicron. L’obiettivo finale, naturalmente, è quello di sviluppare un vaccino in grado di fornire un’immunità di lunga durata senza bisogno di richiami multipli.

L’ingrediente magico
SARS-CoV-2 potrebbe offrire altre opportunità per imparare a migliorare la vaccinazione. Nel 2019, Slifka e il suo collega Ian Amanna hanno pubblicato una revisione di vari studi esaminando diversi tipi di vaccino e cercando modelli che potrebbero aiutare a prevedere perché alcuni inducono un’immunità duratura e altri no.

Dei tipi di vaccino che hanno esaminato, la protezione più duratura tendeva a venire dai vaccini con virus vivi. Questi consistono in agenti patogeni che sono stati alterati in modo che non possano causare malattie. Poiché imitano particolarmente bene l’infezione reale, tendono a suscitare una risposta duratura. Ma anche quelli che contenevano virus interi inattivati o pezzi di proteine virali hanno suscitato una buona memoria. Ciò che sembra importante, dice Slifka, è la quantità di tempo in cui l’antigene rimane in giro. “Non è necessario essere cronicamente infettati – dice – ma deve mantenere la stimolazione del sistema immunitario per un certo periodo di tempo.”

Slifka e Amanna non hanno incluso i vaccini mRNA nella loro analisi – la tecnologia non era di uso comune – ma questi sembrano adattarsi alla tendenza. Per i vaccini mRNA, l’antigene viene prodotto dalle cellule del corpo (a partire da un mRNA modello). Rimane in circolazione solo per poche settimane. E le prove finora suggeriscono che l’immunità potrebbe anche essere transitoria. Ma i vaccini a RNA che hanno la capacità di replicarsi nel corpo potrebbero portare un’immunità più duratura.

SARS-CoV-2 ha dato agli scienziati una pletora di vaccini da osservare e confrontare sullo sfondo di una pandemia attiva, compresi quelli che usano virus interi, inattivati, proteine o mRNA, o quelli basati su un adenovirus, come quelli di Oxford-AstraZeneca o Johnson & Johnson. Ci sono state delle sorprese. La risposta dopo un’iniezione del vaccino Johnson & Johnson, per esempio, suscita una risposta immunitaria inizialmente più debole rispetto ai vaccini mRNA, “ma poi inizia effettivamente a migliorare nel tempo”, dice Deepta Bhattacharya, immunologo dell’Università dell’Arizona a Tucson. “Sta succedendo qualcosa di interessante.”

Gli scienziati vorrebbero capire che cosa succede quando i vaccini vengono mescolati e abbinati. Uno studio britannico noto come “Com-CoV” ha seguito questo fenomeno fin dall’inizio della pandemia. I suoi dati più recenti mostrano che quanti hanno ricevuto una prima dose di Oxford-AstraZeneca o di Pfizer-BioNTech seguita da Moderna hanno avuto una risposta anticorpale più alta di quelle che hanno ricevuto una seconda dose dello stesso vaccino.

“Si può pensare come un allenamento incrociato”, dice Wherry. Mescolare e abbinare diversi tipi di vaccino potrebbe creare una memoria immunitaria più flessibile e diversificata.

L’aggiunta di più obiettivi potrebbe anche innescare una migliore protezione. I vaccini attuali più efficaci mirano alla proteina spike, ma le cellule T possono vedere l’intero virus, dice Bali Pulendran, immunologo della Stanford University, in California. Egli pensa alla memoria immunologica come a un enorme lampadario sospeso da tre fili sottili: uno rappresenta la risposta anticorpale, uno è la memoria delle cellule B e il terzo è la memoria delle cellule T. Ognuno è importante e dovrebbe essere considerato nella progettazione del vaccino. Se uno o due dei fili fossero tagliati, si chiede Pulendran, “saremmo sicuri a stare sotto?”

Un vaccino con un’attività neutralizzante ampia e duratura contro SARS-CoV-2 è sempre stato un’impresa ardua, in gran parte a causa della natura del virus stesso. “Se si guarda alle infezioni respiratorie, queste storicamente sono state molto difficili da prevenire”, dice Ahmed. Questo vale per l’influenza, il virus respiratorio sinciziale e “lo vediamo molto bene con il raffreddore comune”. Con un’infezione sistemica, come il morbillo, ci vuole tempo perché il virus si diffonda nel corpo e causi la malattia. Con le infezioni respiratorie, ciò avviene proprio nel punto di ingresso. Per questi agenti patogeni, la protezione contro la malattia grave potrebbe essere il meglio che si possa sperare.

Molti sono comunque ancora ottimisti. “Sono davvero in tanti a studiare SARS-CoV-2 in questo momento”, dice Scott Hensley, immunologo alla Perelman School of Medicine. Questa ondata di interesse ha portato a notevoli progressi nella capacità degli immunologi di analizzare la risposta immunitaria. Le intuizioni potrebbero finalmente aiutarli a sbloccare la ricetta per un vaccino che offra una protezione ampia e duratura.

“Qual è l’ingrediente magico?”, si chiede Pulendran. “Lì si annida un mistero molto, molto profondo, una sfida fondamentale, che se viene risolta provocherà una trasformazione della vaccinologia.”

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(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Nature” il 2 febbraio 2022. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

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