di Matteo Fano*
I primi tre libri di Paolo Garofalo, tutti editi da Officina della Stampa (Cento anni di socialismo. Dal Partito Rivoluzionario di Romagna a Bettino Craxi. 2019; Il partito comunista italiano. Da Livorno alla Bolognina. 2019; Dal duce alla Fiamma. La Destra in Italia dal 1910 al 1946. 2020) si occupano di un periodo della storia del nostro paese che possiamo per certi versi considerare concluso e che, soprattutto alle nuove generazioni, può addirittura apparire remoto. Dei libri di storia, dunque?
Certo! Tuttavia, sono allo stesso tempo dei libri che trattano un soggetto di estrema attualità. Del resto, non bisogna dimenticare che, come diceva Benedetto Croce, la storia è sempre contemporanea dal momento che indaga sì il passato, ma sempre e solo in funzione delle inquietudini del presente.
Nel nostro caso, la preoccupazione che fa da prisma all’analisi delle vicende di queste tre “famiglie politiche” apparentemente (e sottolineo questo termine!) estinte e che lega tra loro le tre opere, tradendone l’appartenenza a un’unica operazione di ricerca, è l’uso dei simboli. Infatti, a un primo sguardo, la struttura genealogica di queste tre opere ricorda quella dei cataloghi araldici: quei libri in cui sono elencate le varie casate aristocratiche e le loro diramazioni, riportando per ognuna lo stemma e le res gestae dei suoi esponenti più importanti.
Ci sono, tuttavia, due differenze fondamentali: in primo luogo, non si parla di famiglie di sangue ma, come accennavo prima, di schieramenti politici; e in secondo luogo, a differenza che nel primo caso, l’intento non è celebrativo. A tal proposito, salta subito agli occhi che l’autore, Paolo Garofalo, non scrive come militante di un partito politico, ma in quanto militante di un partito politico: questi tre libri non hanno come scopo attaccare o difendere questa o quella fazione, sono scritti in nome di un’idea di Politica come luogo e strumento del dibattito democratico, come spazio di confronto da preservare per poter, poi e al suo interno, militare in uno schieramento.
Alla luce di questo scopo, il taglio cronachistico delle tre opere prende tutto il suo senso: l’autore racconta i fatti perché ne resti il ricordo, cosciente che, come diceva Primo Levi, la memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace dal momento che nel tempo dimentica e, soprattutto, deforma. Ecco, dunque, la ragione della scelta di descrivere senza giudicare: una ἐποχή (epoché) morale ed etica che non è certo semplice da praticare (specialmente quando si trattano argomenti così sensibili) ma che permette al lettore a farsi una propria opinione sui fatti, e non sull’opinione che l’autore ha dei fatti… E in tal modo quasi lo costringe a prendere posizione.
Trovo che ci siano almeno due modi di “servirsi” di questi libri.
La prima volta li ho letti tutto d’un fiato, dall’inizio alla fine, come se fossero stati dei romanzi. Ho seguito con curiosità l’evoluzione e il moltiplicarsi delle differenti organizzazioni afferenti alle tre famiglie politiche in questione, il modificarsi dei loro simboli tramite l’aggiunta o la sottrazione di certi elementi grafici in relazione al momento storico, al messaggio da veicolare, alla funzione svolta, …
Così, pagina dopo pagina, incontravo segni e sigle che sapevo di aver già visto, magari durante mia infanzia: sui libri di storia, sui manifesti elettorali, in qualche documentario, captate di sfuggita a cena dai discorsi degli adulti, … Cose che mi erano rimaste impresse nella memoria più come déjà-vu che come veri e propri ricordi: fantasmi d’informazione senza un contenuto chiaro e preciso… Sapevo di averle già viste, intuivo a grandi linee di che si trattasse ma nulla di più. Ritrovare il simbolo del PSDI, ad esempio, mi ha fatto l’effetto della madeleine di Proust: d’un tratto avevo 4 o 5 anni ed ero seduto sulle ginocchia di mio nonno a giocare con le sue vecchie tessere del partito.
Il secondo modo di servirsi di questi tre libri è consultarli quando un’organizzazione politica si serve di simboli i cui elementi grafici rimandano al passato per capire in che modo l’uso che ne è fatto – aggiunta, eliminazione, modifica, evocazione – mette in relazione l’antico significato con il nuovo messaggio che si vuole veicolare. Mettendo il lettore nelle condizioni di poter di compiere quest’operazione, questi tre libri svolgono un ruolo formativo che li rende degli strumenti politici importanti. Questi infatti contribuiscono al buon funzionamento dei meccanismi di una democrazia, proteggendola dal rischio di derive demagogiche: un rischio che, come già affermava Aristotele, è connaturato a questa forma di governo; e che prende forma (anche) in relazione allo sfruttamento spregiudicato che alcuni dirigenti politici, indipendentemente dalla fazione, fanno del potere dei simboli.
Un potere che, di per sé, è tutt’altro che dannoso, rendendo l’uso del simbolo fondamentale per il funzionamento della vita politica di un popolo: tant’è che, quale che sia l’epoca storica o il contesto sociale, non c’è forma istituzionale o fazione che non se ne sia servita, che non se ne serva, né che potrà mai farne a meno.
In politica, infatti, il simbolo è insostituibile perché svolge tre funzioni fondamentali che derivano dalla sua natura di essere, semplificando molto, qualcosa che sta per qualcos’altro in una relazione che, per essere efficace, deve essere condivisa da chi lo espone e da chi lo legge.
Queste tre funzioni conseguono l’una dall’altra e sono: comunicativa, cognitiva e identificativa.
La funzione comunicativa è una conseguenza del fatto che, nel simbolo, il legame tra significato e significante è arbitrario, convenzionale: tutto può stare per qualunque cosa, basta mettersi d’accordo. Questo significa che un simbolo può rimandare a concetti complessi e, anzi, concentrare, stratificare, aggregare significati e articolarli vere e proprie costellazioni di senso: un semplice segno grafico, così, può sintetizzare i valori che animano un’istituzione, la storia di un popolo, l’identità di un partito, il programma politico di un gruppo, un’intera visione del mondo, … Pensate a cosa esprime uno stemma araldico, una bandiera nazionale o, per restare in tema, il simbolo di un partito (sia esso un garofano rosso, una fiamma tricolore o una falce e martello). La prima funzione del simbolo è, dunque, di semplificare la comunicazione della complessità, senza necessariamente semplificare la complessità comunicata.
La seconda funzione è cognitiva ed è legata al fatto che, in un simbolo politico, il legame tra significato e significante non è solo arbitrario, ma è anche molto duttile: questo permette di manipolarla, sia graficamente che concettualmente, in modo da farla evolvere in funzione del messaggio che vogliamo esprimere. Così diventa possibile mettere in relazione e articolare in modo complesso i concetti e relazioni che altrimenti sarebbero difficili da esprimere: perché complicati da definire, perché molto sottili, perché poco chiari, perché mancano le parole per farlo … o anche solo perché molto lunghi da esplicitare ogni volta. Ecco, dunque, la seconda funzione del simbolo in politica: non solo permette di comunicare la complessità del mondo, ma anche di manipolarla al fine di meglio comprenderla, darle senso.
Pensiamo, ad esempio, al messaggio che la Repubblica Francese voleva inviare scegliendo, tra i suoi simboli, un fascio littorio sormontato, al posto che da una scure, da un berretto frigio con la coccarda tricolore: da un lato, ricollegarsi a una certa tradizione; dall’altro, rimarcare la propria peculiarità.
Tale funzione del simbolo in politica ha le sue radici nell’uso che ne fa la mitologia che, per l’appunto, è uno dei primi strumenti umani per capire, comunicare e, in generale, avere a che fare con la complessità del mondo e di sé stessi; e che non solo si serve di simboli, ma funziona nel suo complesso secondo la logica simbolica del qualcosa che sta per qualcos’altro.
Veniamo ora alla terza funzione del simbolo, quella identificativa, deriva direttamente dalle altre due. Etimologicamente la parola simbolo viene dal greco συμβάλλω (sumbàllo) che significa: mettere insieme. Originariamente il σύμβολον (sùmbolon) era un oggetto che veniva spezzato in due in modo irregolare al fine di permettere ai discendenti di due famiglie di riconoscersi e, ad esempio, perpetrare un vincolo di alleanza.In politica, il potere identificativo dei simboli funziona più o meno nello stesso modo ma, al posto di fare accostare le due metà di un oggetto, facciamo combaciare un segno alla stessa costellazione di significati, almeno per quanto riguarda gli aspetti più importanti.C’è chi guardando una falce e un martello incrociati vi associa un ideale di riscatto sociale e, nonostante certe derive storiche legate alla sua applicazione pratica, continua a vederci futuro auspicabile. Altri, invece, legano allo stesso significante un significato diverso. Gli uni e gli altri, pertanto, non si riconoscono parte della stessa famiglia politica.
Tuttavia, se per tutte le ragioni che ho esposto l’uso dei simboli in politica è, oltre che inevitabile, utile e fecondo; non dobbiamo dimenticare che, come accennavo all’inizio, per gli stessi motivi può diventare insidioso.
Infatti, perché i simboli siano degli strumenti al servizio della democrazia e non armi nelle mani dei demagoghi, il loro potere identificativo deve essere fondato sulle prime due funzioni: la capacità di comunicare la complessità senza semplificarla; e quella di permettere di manipolarla per meglio comprenderla. Questo avviene solo se chi legge il simbolo è educato a riconoscere tale complessità del mondo: il che è possibile solo se chi lo espone ha come scopo il servirsene come strumento per riflettere e far riflettere su di essa… E non come pretesto per non pensare: un sotterfugio per nasconderla, annullarla.
Se questo accade, infatti, il simbolo diventa un vuoto feticcio identitario.
Allora, può accadere che un crocefisso venga brandito da un palco elettorale come se fosse un logo pubblicitario; e lo stesso può succedere al nostro Tricolore, esposto secondo logiche di marketing commerciale che dimenticano il suo significato storico di simbolo di unità, progresso, emancipazione sociale, laicità dello Stato, democrazia, …
Allora, si può assistere alla cancellazione della falce e del martello dal simbolo del partito che per più di cinquant’anni vi si era identificato e che, in tale modo, accetta implicitamente l’interpretazione (quantomeno riduttiva) che di tale simbolo è fatta dai suoi avversari: come segno di una dittatura, invece che tipo di società diverso e più equo.
Allora, si finisce anche per vedere la stella di Davide appuntata sui vestiti, simbolo di una delle tragedie del 900, utilizzata da alcuni elementi dei gruppi no-vax in un modo che, indipendentemente dalla propria opinione sull’obbligo vaccinale, è anacronistico, offensivo e grottesco.
La storia di un simbolo è l’unico dato oggettivo che leghi il suo significato e il suo significante, tenendone memoria si resta coscienti della sua complessità e di conseguenza della complessità a cui si riferisce. Questo, comunque la si pensi politicamente, è fondamentale per opporsi alle operazioni di semplificazione che, oggi, rappresentano un concreto rischio di involuzione demagogica della vita politica di questo Paese: esse, infatti, sono frutto di strategie spregiudicate e ben studiate, che sono modellate sulle tecniche della pubblicità e che mirano a trasformare l’elettore in consumatore. Fino ad ora siamo troppo spesso battuti in ritirata davanti a queste manovre, rinunciando a combattere sul significato dei simboli e, de facto, permettendo ai demagoghi di riuscire nella loro denaturazione: pensiamo a cosa ha fatto il fascismo con i simboli del nostro Risorgimento, ridotto a essere una mera avventura nazionalista invece di quella grande, composita e sfaccettata storia di emancipazione sociale di un popolo che effettivamente fu.
È arrivato il momento dell’ordine 227: Нишагуназад (Ni shagunazad), non un passo indietro. E io credo che operazioni di ricerca e restituzione come quelle compiute in questi libri siano armi importanti con cui difendere le nostre trincee intellettuali in questa battaglia.
*Matteo Fano, Antropologo, Professore a contratto in Scienze Sociali Applicate presso l’ENSA (École Nationale Supérieure D’architecture) di Marsiglia e Candidato al Dottorato di Ricerca (PhD) in Antropologia della Salute presso il centro Norbert Elias dell’EHESS di Marsiglia.