È una vecchia storia attuale: l’atteggiamento antiscientifico può uccidere

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A quasi due anni dall’inizio della pandemia c’è ancora chi sostiene l’inesistenza della malattia, l’inutilità o la pericolosità delle vaccinazioni o del ricorso ai farmaci, mettendo a rischio la propria vita e quella degli altri. Ma non è certo la prima volta che pericolosi movimenti antiscientifici guadagnano la ribalta, con somiglianze e differenze. Ecco l’analisi della situazione da parte del docente Mauro Capocci, che insegna storia della scienza e della medicina all’Università di Pisa. Vi lasciamo al suo articolo, che è stato anche pubblicato su “Le Scienze”, con libera possibilità di riproduzione citando la fonte.

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Ci affacciamo al secondo anno di pandemia da COVID-19, sempre più attrezzati. Mascherine e igienizzanti vari, ma soprattutto vaccini e farmaci sviluppati a tempo record. Pur con tutti i condizionali del caso, c’è da rimanere a bocca aperta di fronte allo sforzo compiuto da ricercatrici e ricercatori per aiutarci in questo tragico frangente. Per questo sembra ancora più stridente e incomprensibile il rumore che proviene da chi – per diverse ragioni – continua a sostenere l’inesistenza della malattia, l’inutilità delle vaccinazioni (o la loro pericolosità) o il ricorso a farmaci di ogni tipo. Anti-science kills (L’anti-scienza uccide), come recita il titolo di un articolo uscito tempo fa su “PLOS Biology”.

Non è certo la prima volta che movimenti simili guadagnano la ribalta, e troviamo delle somiglianze nel tempo, non solo delle differenze. La differenza principale è nel tipo di narrazione che viene costruita. Oggi, in Italia, l’opposizione ai vaccini (non solo contro COVID-19) e lo scetticismo sul virus è descrivibile come una sorta di rivolta dal basso contro l’oppressore: il governo impone misure restrittive usando il virus (che in realtà non esiste o non è grave) come scusa, e le vaccinazioni sono imposte nonostante non siano necessarie a fini medici, ma per altri scopi.

L’opposizione è a una “scienza ufficiale” – quella che ha collaborato nei paesi ricchi a raddoppiare l’aspettativa di vita in circa un secolo – di cui non ci si dovrebbe fidare perché troppo interessata a mantenere lo status quo e il potere di corporazioni di medici e ricercatori, nonché delle grandi aziende farmaceutiche.

In questo contesto, molto spesso, rientra anche una personalizzazione: è un genio singolo che ha un’intuizione rivoluzionaria, e da solo prende d’assalto un campo del sapere, incompreso dai più (soprattutto se suoi colleghi), ma sostenuto da non addetti ai lavori. In Italia abbiamo esempi recenti: uno di questi è la cosiddetta “cura Di Bella” contro i tumori (in generale), che prevedeva la somministrazione di ormoni (tra cui la somatostatina) e vari altri elementi. Tra il 1997 e il 1998, Luigi Di Bella (scomparso nel 2003) fu al centro di una vicenda mediatica molto peculiare: usata da due decenni – nonostante l’assenza di risultati documentati e di un protocollo standardizzato e pubblico – la cosiddetta “multiterapia Di Bella” diventa molto costosa per una variazione di prezzo del farmaco.

Un’associazione di pazienti in cura con il metodo Di Bella riuscì ad alzare sufficiente clamore da convincere un tribunale pugliese a obbligare la sanità locale alla somministrazione gratuita. Sempre senza evidenze di efficacia, la campagna mediatica fu cavalcata dal centrodestra (Alleanza Nazionale soprattutto) e dai Verdi, spingendo il Ministero della salute ad analizzare le cartelle cliniche in possesso di Di Bella e a effettuare una sperimentazione.

Le cartelle cliniche si rivelarono inutilizzabili perché molto spesso incomplete e imprecise, mentre il trial clinico mostrò la pericolosità del trattamento: era inefficace, e la sopravvivenza dalla diagnosi diminuiva. Oggi il sito web del “metodo Di Bella”, gestito dai figli dell’ex-professore universitario, ospita molte argomentazioni contro le vaccinazioni anti- COVID-19 (“la cancellazione del popolo italiano”) e parla di un “nuovo ordine mondiale” da contrastare tramite la recita di un rosario.

Non abbiamo statistiche precise su quali siano stati i danni causati da tale esposizione mediatica: sicuramente alcuni pazienti (diverse centinaia) sottratti ai normali protocolli e tempo e risorse utilizzati per una sperimentazione che non aveva motivo di essere.

Lo stesso spreco di risorse è stato evitato nel cosiddetto “caso Stamina”, scoppiato tra 2012 e 2013. In quella occasione, due persone (Davide Vannoni e Mariano Andolina, rispettivamente un laureato in psicologia e un medico) vendevano trattamenti molto costosi a base di “cellule staminali mesenchimali” per curare malattie neurologiche degenerative infantili.

Anche qui, a parte il gergo medico usato a sproposito, non vi era nulla di scientifico, ma i due ideatori del “metodo Stamina” riuscirono a mobilitare i mezzi di comunicazione e molti esponenti politici (anche in questo caso, quasi tutti di destra) in favore della “libertà di cura”, chiedendo tuttavia che questa libertà fosse esercitata a spese dello Servizio sanitario nazionale. In questo caso, dopo alcuni tentennamenti, furono bloccati i finanziamenti (tre milioni di euro) per la sperimentazione di un protocollo mai descritto pubblicamente e senza alcun fondamento scientifico. Un tribunale ha poi chiuso la vicenda con una condanna per truffa.

Rispetto ad altri casi di “anti-scienza”, tuttavia, il caso Stamina ha delle sfumature più inquietanti. I discorsi dei due protagonisti e dei loro seguaci sembravano portare all’estremo le “promesse” di una larga parte della comunità scientifica, e quindi le aspettative generate. A partire dagli anni duemila, infatti, le “cellule staminali” e le promesse della medicina rigenerativa erano al centro di un’incredibile attenzione, ovviamente cavalcata da ricercatori più o meno in buona fede.

In California venne aperto nel 2004 un istituto di medicina rigenerativa il cui budget iniziale era pari a tutta la spesa effettuata per il Progetto genoma umano. Le possibilità che queste terapie sembravano aprire avevano spinto poi per una rapida “traslazione” dal laboratorio verso la clinica, e in Europa, America e Asia numerosi trial clinici sono stati autorizzati ed effettuati senza avere solidi fondamenti.

In questo senso, il caso Stamina aveva rischiato di essere un apripista, consentendo la sperimentazione senza base alcuna e con un protocollo mai pubblicato. Finora solo pochissimi trattamenti a base di cellule staminali sono stati autorizzati: quelli in cui la ricerca di base ha avuto la precedenza sulla corsa all’applicazione clinica. In Italia, il paese di Di Bella e di Stamina, abbiamo avuto anche il primo trattamento autorizzato a base di cellule staminali, sviluppato a Modena da Graziella Pellegrini e Michele De Luca.

Rispetto al caso Lysenko – quando la scienza ufficiale approvata da Stalin rigettò il darwinismo per convenienze politiche, epurando i migliori genetisti e fallendo sul piano agroalimentare – e alla gestione del COVID-19 da parte di Trump negli Stati Uniti e Bolsonaro in Brasile, vediamo comunque delle differenze. Stamina e Di Bella in origine parlavano di una “rivoluzione” incompresa e sconfitta dall’establishment; i no-vax, così come Trump, Bolsonaro e Lysenko si sono raccontati come bastioni di “resistenza” di fronte a forze oscure tese a destabilizzare l’ordine e i valori da loro stessi incarnati.

Nelle parole di Trump, per esempio, si ritrova l’astio nei confronti degli “esperti” perché hanno dato allarmi che avrebbero potuto minare i pilastri della società. E, d’altra parte, negli Stati Uniti è legalmente impossibile per ricercatori e ricercatrici di ogni agenzia federale (inclusi i National Institutes of Health) effettuare studi che possano portare alla promozione del controllo delle armi.

Secondo una dichiarazione del 2011 del portavoce della National Rifle Association, gli studi che evidenziavano una correlazione tra diffusione delle armi e pericoli per la salute pubblica erano “scienza spazzatura”, che miravano a minare un diritto che negli Stati Uniti è considerato inalienabile. Scienza che mirerebbe a essere politica e pervertita a scopi politici: un’accusa che ha avvelenato per troppo tempo anche i dibattiti – incredibilmente ancora vivi – sul cambiamento climatico. I dati sono disponibili da decenni, ma nel frattempo si è fatto di tutto per ignorarli, distorcerli, nasconderli. Questa è davvero anti-scienza che uccide, e che nel caso del cambiamento climatico ucciderà anche nelle prossime generazioni.

Ma perché di fronte all’evidenza non abbracciamo tutti insieme “la scienza”, senza se e senza ma? Le spiegazioni proposte passano dall’evoluzione (adattamenti darwiniani ci rendono difficile comprendere alcune cose troppo complesse o innovative, o lontane da noi e dal nostro modo di pensare) all’inestirpabile credulità umana di fronte a una promessa di rapido guadagno (la guarigione invece della prognosi infausta, venduta come “Nuova medicina germanica” da Ryke Geerd Hamer o come “siero di Bonifacio”).

Tuttavia, su qualcosa possiamo agire. In questi due anni di pandemia abbiamo avuto numerose occasioni per guardare la comunità scientifica in azione, come se fossero state aperte le porte dei laboratori e dei luoghi di decisione. Abbiamo visto modelli statistici ed epidemiologi tentare di spiegarceli; virologi che parlavano dei loro esperimenti; infettivologi che descrivevano le caratteristiche del contagio come fossimo tutti tornati a scuola.

È stata una dimostrazione di trasparenza notevole, nel bene e nel male, perché da pubblico abbiamo visto da vicino anche i lati personali di ricercatrici e ricercatori: l’ottimista, il narcisista, la modesta, l’apocalittico. A ricordarci che la scienza non è “una” nella pratica del mondo reale e non regala certezze in breve tempo, ma si muove nel dubbio: con l’idea che esista una realtà indipendente da noi e dalle nostre opinioni, e che il metodo scientifico fatto di ipotesi ed esperimenti sia il miglior modo per conoscerla.

È fondamentale tenere presente la differenza tra la “Scienza” e sue realizzazioni pratiche, le sue istituzioni umane e politiche, le persone che tentano di praticarla. È grazie a questa distinzione che possiamo avere fiducia nel metodo scientifico nonostante gli orrori dell’eugenetica “scientifica” nazista e la tragedia della talidomide. Un camice bianco o una laurea non sono garanzie di onestà, ma le comunità scientifiche si sono dotate di sistemi di validazione dei risultati.

Mantenere la trasparenza nei confronti della società che chiede, mantiene e usa i risultati della ricerca è un fattore fondamentale, anche attraverso la conservazione della ricerca pubblica, e sperabilmente in grado di bilanciare gli interessi pubblici e privati. Altrimenti, c’è il rischio di una percezione pubblica dogmaticamente negativa e/o complottista: un sentimento di anti-scienza che non è critica legittima, ma può diventare distorsione della realtà, facilmente sfruttabile a fini politici e senza benefici collettivi.

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