Nei giorni difficili della seconda ondata del Covid-19, il dibattito sul futuro dell’Italia si è riacceso con particolare vigore. Tante le idee, i progetti e le suggestioni che si avanzano da più parti per la stimolare la ripartenza del nostro Paese, anche in vista dell’arrivo delle risorse europee. C’è un tema, tuttavia, che resta assente da quasi tutte le posizioni, e che viene ricordato soltanto dagli “addetti ai lavori”. Parliamo della ricerca scientifica, un asset fondamentale su cui l’Unione Europea – ma anche l’Italia e in particolar modo la Sicilia – non riesce ancora ad investire ai ritmi previsti.
Per restare a livello di Eurozona, gli impegni di spesa nel settore della ricerca scientifica entro l’anno 2020 prevedevano di raggiungere il 3% del Prodotto Interno Lordo. Previsione non mantenuta, se i dati aggiornati a quest’anno dicono che si è a malapena arrivati ad investire il 2% del PIL. Andrebbe poi fatta una distinzione tra ricerca di base e ricerca applicata: gli investimenti si concentrano specialmente su quest’ultima, che consente di recuperare più facilmente le spese e andare in attivo, piuttosto che sulla prima, che costituisce invece il motore di un reale progresso scientifico. A ragionare in tal modo sono sopratutto i privati, che mirano legittimamente al profitto. Ma anche gli investitori pubblici, negli anni, hanno dimostrato di non sapere cogliere del tutto l’importanza del progresso. E di questo, oggi, paghiamo il prezzo.
Questa situazione si traduce infatti in un deficit grave, rispetto ad altre Regioni, Paesi e Continenti che invece, sulla ricerca, hanno investito in modo programmatico e lungimirante risorse ingenti, e riescono oggi a trarne benefici sociali ed economici. Ma come è nata questa tendenza? Ed è ancora possibile invertirla? Ce ne parla, nella puntata di stasera di “Riserva di caccia”, il nostro editorialista Salvatore Bonura. Seguiteci in prima visione a partire dalle 20.00!