Il coronavirus ci ha catapultati in un mondo surreale, facendo emergere le istanze primitive di ognuno di noi, e sembrano ormai lontane e sbiadite quelle immagini dei flash-mob sui balconi, dove le note di alcune canzoni regalavano un sorriso di speranza alle persone.
Ci siamo abituati a vivere dentro una metafora di guerra (“Siamo in prima linea”, “Stiamo combattendo una guerra”, “Medici al fronte”, “Chiamata alle armi”, etcc…). E, oltre che dentro la metafora, ci siamo barricati nelle nostre case, dove ognuno porta avanti la propria battaglia. All’interno dello stesso nucleo familiare si vivono così emergenze di natura differente, e sganciate da un sottile egoismo (la libertà dei bambini, le preoccupazioni economiche dei genitori, etcc…).
Ma un’emergenza dolorosa e silenziosa che intendo omaggiare è quella degli anziani. Rimanendo nella metafora di guerra, Freud nel 1915 faceva delle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, nelle quali spiegava che inconsciamente noi non crediamo alla nostra morte, mentre crediamo in quella degli altri, addirittura auspicandola. E allora, per difenderci dal pensiero della morte, egoisticamente l’abbiamo allontanata proiettandola nella fascia più debole della società (il virus è letale nelle persone anziane, nelle persone ammalate etcc…).
In tutto questo, proprio gli anziani e le persone ammalate, alle prese con una sofferenza e un silenzio dignitoso di cui noi “immortali” sconosciamo addirittura il significato, sono stati accanto a noi, senza farci pesare nulla, mentre le notizie alla TV continuavano a scongiurare la morte recintandola nella loro pelle. Ma anche questa certezza della quale ci eravamo illusi si è sgretolata: la morte non guarda in faccia nessuno e non ha età.
All’improvviso un silenzio ci avvolge, passano nella nostra mente le immagini della fila silenziosa dei camion militari che trasportano le bare. I medici deceduti per contagio, gli autisti del 118, il sorriso spezzato a soli sedici anni della bella Julie, ci danno la conferma che nessuno è immune al virus.
Ma questo silenzio viene interrotto da un’altra emergenza, e questa volta è l’emergenza sociale. Quel sottoproletariato invisibile che vive nei quartieri popolari delle grandi città del Sud, da sempre inseguito dai mestieri fuori dai confini della legalità, quel sottoproletariato che abita stanze affollate di bocche da sfamare, diventa una polveriera che può esplodere da un momento all’altro.
Nel glossario dell’emergenza coronavirus debutta la parola saccheggio, ad alimentare altre paure, e i supermercati diventano il bersaglio principale. Questa non è lotta di classe ma lotta di sopravvivenza, e vale anche quando un giovane rider viene derubato del misero incasso durante il suo turno di lavoro. Il rischio è che questa emergenza sociale possa essere stata contagiata dai tentacoli della piovra, e allora oggi più che mai la solidarietà deve essere un antivirale utile per arginare queste emergenze sociali.
Per rivendicare il ruolo di una sanità pubblica da tempo indebolita da selvagge privatizzazioni, per uscire da questa metafora di guerra, e nel chiuso delle nostre stanze, uscire soprattutto dal guscio dell’egoismo perché da solo non si salva nessuno.