"Un morto ogni tanto", al Monastero dei Benedettini sala piena per Paolo Borrometi

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CATANIA – Mafia, legalità, territorio. Sono i temi dell’incontro svoltosi questa mattina presso l’Auditorium “Giancarlo De Carlo” del Monastero dei Benedettini di Catania, alla presenza del giornalista Paolo Borrometi – collaboratore di Tv2000 e dell’AGI, direttore del giornale laspia.itfinito sotto scorta per le sue inchieste sulla mafia ragusana. Una mafia feroce e sottovalutata, che aveva progettato di ucciderlo visto che, dicevano i mafiosi al telefono, “ogni tanto un murticeddu serve”. Quel murticeddu che avrebbe dovuto essere Borrometi è diventato il titolo del libro “Un morto ogni tanto”, edito da Solferino, presentato oggi nel corso dell’incontro di fronte a centinaia di studenti dell’Ateneo catanese.

Ad aprire il convegno i saluti di Giancarlo Magnano di San Lio, Prorettore dell’Università di Catania, seguiti dall’introduzione del professor Salvatore Cannizzaro, docente di Geografia Culturale presso lo stesso ateneo. Una chiave di lettura del fenomeno mafioso, quella geografica, al centro degli interventi del professor Andrea Riggio, Presidente dell’Associazione dei Geografi Italiani (AGEI), e del professor Girolamo Cusimano, Presidente della Scuola delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale presso l’Università di Palermo. A moderare gli interventi il giornalista de La Sicilia Mario Barresi, che ha poi dialogato con Borrometi sul suo libro.

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Un morto ogni tanto, appunto. Quando Barresi legge l’intercettazione relativa all’attentato, all’opportunità di far saltare in aria il giornalista in una scuola – insieme ai bambini – nell’auditorium cala il silenzio. “Il mio libro nasce all’indomani di questa notizia, il 10 aprile dell’anno scorso – dice Borrometi prendendo la parola – per accendere l’attenzione su una mafia che nel territorio ragusano è stata sempre sottovalutata. Invece la mafia si muove, fa affari, prospera. E non è scontato dirlo, se appena sette anni fa, quando Roberto Saviano spiegò in tv che la mafia era arrivata anche in Lombardia, l’allora ministro Maroni chiese addirittura una puntata riparatoria”.

Oggi la consapevolezza del fenomeno è aumentata, ma si va ancora incontro a gravi errori di valutazione. Uno dei più comuni, spiega Borromenti, è credere che la mafia abbia posato le armi. “Si dice spesso che la mafia non spara più, mentre questa dimensione di violenza non è mai stata abbandonata – sottolinea il giornalista – come ci raccontano le cronache, da Mafia Capitale alla Sicilia. Le intercettazioni che abbiamo ascoltato sono un pugno nello stomaco, per me ma per ognuno di noi. Erano disposti a far saltare in aria una scuola, senza rispetto per la vita degli stessi ragazzini. Questi due livelli, quello della violenza e quello degli affari, sono strettamente legati e si sostengono reciprocamente, creando il vero potere mafioso”.

Questo potere nelle pagine del suo libro Borrometi lo scandaglia palmo a palmo, a partire dal “caso di scuola” del pomodorino di Pachino Igp. Un tesoro della Sicilia, e in particolare del ragusano, su cui le mafie hanno da tempo allungato le mani. “Quello delle agromafie è un affare da miliardi di euro – spiega – Per capirlo bisogna seguire la filiera passo dopo passo, dalla vendita a 0,40 centesimi al chilo del produttore a quella a 7,50 euro al chilo del rivenditore a Milano. Cosa succede nel frattempo? L’affare delle mafie, che hanno capito prima di noi che collaborare conviene a tutti, mafia, camorra e ‘ndrangheta. Un giornalista secondo me deve spiegare proprio questi meccanismi”.

La platea dei ragazzi segue attenta l’intervento, anche quando si sposta su altri interessi della criminalità organizzata, dal business dell’accoglienza – riscontrato nelle dichiarazioni di collaboratori di giustizia ritenuti attendibili dalla Magistratura, al di là di ogni strumentalizzazione – alle cointeressenze con certa politica e i colletti bianchi. Quelli che spesso, ricordano Borrometi e lo stesso Barresi, usano intimidire con lo strumento delle querele temerarie, il cui obbiettivo primario è isolare e tacitare il giornalista.

Un mestiere sempre più difficile, certo, sopratutto per chi voglia tenere la schiena dritta. La testimonianza di Paolo Borrometi di fronte agli studenti catanesi dimostra che è ancora possibile farlo. Senza bisogno di appiccicarsi etichette addosso, perché, si legge nel libro, “non può esistere nessun giornalista antimafia, anti-corruzione, anti-illegalità. Alcuni cittadini di professione fanno i giornalisti. E’ solo il loro dovere. Tutto qui”. 

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