L’8 dicembre 1816 re Ferdinando abrogò la Costituzione siciliana del 1812 e l’11 dicembre finì l’indipendenza del Regno di Sicilia che fu annesso a quello di Napoli con il nome di Regno delle due Sicilie.
Così Gesualdo Campo ricostruisce quell’epoca storica.
Quattro anni orsono è ricorso, quasi inosservato, il bicentenario della Costituzione Siciliana del 1812 che, invece, avrebbe dovuto essere adeguatamente celebrato, essendo stata la prima costituzione europea bicamerale scritta, sul modello di quella inglese orale, tuttavia reale e allora come oggi vigente.
Il Regno di Sicilia, pur con alterne vicende quale la parentesi angioina (1266-1302), aveva dal 1130 proprie istituzioni che mantenne anche quando, dal 1734, condivise la corona borbonica con quello di Napoli, il cui re Ferdinando (Napoli 1751-1825) IV fu III di Sicilia e, dal dicembre 1816, I delle Due Sicilie.
Ferdinando assurse a soli otto anni alla corona dei due regni, succedendo nel 1759 al padre Carlo III assurto a quella di Spagna; gli fu attribuito l’appellativo di “Re Lazzarone” per la sua adolescenziale frequentazione a Napoli dei Lazzari, così detti perché vestiti di stracci come Lazzaro al momento in cui si alzò e camminò (Giovanni 11,1-44).
Egli non fu assiduo frequentatore del palazzo reale di Palermo sino a quando non dovette rifugiarvisi con la corte per due volte in fuga da Napoli con la protezione della flotta inglese.
La prima, il 21 dicembre 1798, sulla nave Vanguard al comando dell’ammiraglio Horatio Nelson, dopo la disfatta inflittagli dalle truppe bonapartiste a Roma dove aveva creduto di poter sconfiggere la Repubblica Romana e ristabilire l’autorità papale; profittando di quella disfatta i giacobini napoletani insediarono il 29 gennaio 1799 la breve Repubblica Partenopea alla cui abrogazione, l’8 luglio 1799 (la famiglia reale sarebbe, però, tornata da Palermo a Napoli il 31 gennaio 1801), seguì una repressione sanguinaria con 124 condannati a morte, 222 all’ergastolo, 322 ad altre pene, 288 deportati e 67 esiliati (fig. 1), imposta da Nelson a sua volta spinto dall’amante lady Emma Hamilton.
Per premiare Nelson per averlo protetto e reinsediato re di Napoli, Ferdinando, da re di Sicilia e titolare della Legatia apostolica nel 1098 accordata in perpetuo dal pontefice Urbano II ai regnanti dell’isola (abrogata, dopo la proclamazione di Roma capitale, il 13 maggio 1871 dalla legge n. 214 (detta delle guarentigie), gli concesse il 10 ottobre del 1799 il titolo di duca di Bronte e il fertilissimo feudo di circa 23000 ettari della storica abbazia benedettina Santa Maria di Maniace (fig. 2) edificata nel 1174 per volontà del re Guglielmo II d’Altavilla, detto il Buono, e della madre Margherita di Navarra in memoria e nel luogo della sconfitta inflitta nel 1040 ai saraceni, diciotto anni prima dello Scisma d’Oriente, dal corpo di spedizione bizantino normanno al comando del generale
Giorgio Maniace, ovvero il luogo simbolo del progressivo ritorno dell’isola nella sfera d’influenza dell’occidente cattolico dopo secoli di appartenenza all’oriente prima bizantino e poi musulmano, che perse ogni connotazione storica divenendo banalmente la “Ducea di Nelson”, il quale però mai vi mise piede.
Era chiaro sin da allora l’intento di Ferdinando che premiava con un feudo benedettino del Regno di Sicilia “benemerenze” maturate nel Regno di Napoli, in più privando il popolo siciliano della sua memoria identitaria e di terre tra le più fertili.
Altra sarebbe stata la storia di Gasparazzo e dei carbonari di Bronte se avessero saputo che anche lo sbarco dei Mille era avvenuto con la protezione di navi della flotta che era stata al comando del Nelson!
Così quel borbone – che da legato apostolico aveva già incamerato al regio demanio nel 1767 i beni siciliani della Compagnia di Gesù cacciata da entrambi i regni e sul finir del secolo quelli catanesi dell’Ordine dei Trinitari, anticipando le spoliazioni bonapartiste e quelle post unitarie del 1866/’67 attraverso le quali il Regno d’Italia, dissanguato da due Guerre d’Indipendenza e dalla terza in corso, poté insediare istituzioni e servizi in ex conventi e monasteri – riuscì a rimuovere il simbolo del processo costitutivo del Regno di Sicilia di cui caldeggiava l’annessione al Regno di Napoli.
La seconda fuga a Palermo fu nel 1806, avendogli sottratto il trono napoletano Giuseppe Bonaparte e dal 1808 Gioacchino Murat.
Non volendo Ferdinando piegarsi alle pressioni inglesi per la concessione di una costituzione liberale nel Regno di Sicilia al fine di frenare la deriva bonapartista manifestatasi in vari tumulti, lord William Bentinck, emissario del Governo inglese, la cui flotta proteggeva quel regno, lo privò nel 1812 dei poteri e insediò vicario generale il figlio Francesco (Napoli, 1777-1830) di apparenti tendenze liberali, così ottenendo la promulgazione della Costituzione, la prima bicamerale europea scritta, non concessa ma le cui dodici basi o principi generali, nelle prime ore del 20 luglio 1812, furono approvate dal Parlamento riunito in sede costituente nella sala grande della Biblioteca Regia (fig. 3), attiva dal 15 novembre 1782 dopo quattro anni di lavori di adeguamento dello spoliato Collegio Massimo dei Gesuiti, voluti da Ferdinando, su proposta del Regio Custode delle Antichità del Val di Mazara Gabriele Lancillotto Castelli principe di Torremuzza e marchese di Motta d’Affermo (Palermo 1727-1794) che li volle progettati dall’architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia (Palermo 1729-1814), ora Biblioteca Centrale della Regione Siciliana.
Si trattava, però, di una Costituzione etero determinata dal protettorato inglese che la impose al re borbone al fine di demotivare le sommosse filonapoleoniche del popolo siciliano; essa prevedeva il potere legislativo bicamerale, con Camera dei Comuni elettiva per il terzo Braccio popolare e Camera dei Pari, ai quali erano attribuite cariche vitalizie, per il primo Braccio ecclesiastico e per il secondo Braccio militare, il potere esecutivo designato dal re e il potere giudiziario formalmente indipendente. Le camere erano convocate almeno una volta all’anno dal re che aveva diritto di veto sulle leggi da esse approvate.
Una di queste previde l’articolazione territoriale amministrativa in 23 distretti o comarche secondo “la natura del terreno, come fiumi, monti e valli” e come capoluoghi i comuni con “le popolazioni più cospicue e più favorite dalle circostanze locali”: Alcamo, Bivona, Caltagirone, Caltanissetta, Castroreale, Catania, Cefalù, Corleone, Girgenti, Mazara, Messina, Mistretta, Modica, Nicosia, Noto, Palermo, Patti, Piazza, Sciacca, Siracusa, Termini, Terranova e Trapani (più o meno coincidenti con le 23 “coalizioni territoriali” in cui si è articolato il Programma Operativo Sicilia del Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale 2006-2013).
Reinsediato re di Napoli dal Trattato di Casalanza del 20 maggio 1815 e conclusosi il Congresso di Vienna il 9 giugno successivo, Ferdinando non esitò a portare a compimento in tempi brevi il progetto d’annessione del Regno di Sicilia, le cui avvisaglie si erano colte quando volle premiare Nelson con il feudo di Bronte, abrogando l’8 dicembre 1816 la Costituzione e l’11 l’indipendenza del Regno di Sicilia, annettendolo il 22 al Regno di Napoli e titolandosi “Ferdinando I delle due Sicilie”, con quella insulare, dopo oltre cinque secoli dalla guerra del Vespro e dalla pace di Caltabellotta, di nuovo subalterna a quella partenopea e defraudata dei propri ordinamenti e di ogni protagonismo istituzionale e scientifico fino, almeno sulla carta, alla conquista statutaria del 1946.
La Sicilia, con improvvide divisioni campanilistiche tra le tre principali città, insorse nel 1820, Francesco tornò reggente e il generale Florestano Pepe (Squillace, 1778 – Napoli, 1851), liberale e già bonapartista, contenne la rivolta concedendo il ripristino della indipendenza e della Costituzione che però non venne riconosciuto dal parlamento napoletano; nel 1821 seguì la rivolta di Catania.
Quando Francesco salì al trono nel 1825, si rivelò continuatore della politica restauratrice del padre e riuscì a mantenere in equilibrio il nuovo Regno concedendo che continuasse il processo di blanda modernizzazione, avviato nell’Isola durante il protettorato inglese, con contenuti progressi in campo economico e culturale tra i quali il potenziamento della “galleria di quadri” del Museo della Università palermitana cui nel giugno 1827 donò un cospicuo numero di dipinti e altre opere d’arte che oggi fanno parte delle collezioni della Galleria regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis.
Seguirono le rivolte di Catania del 1837, di Messina, fatti precorrendo e idee, del 1847 e dell’isola del 1848 inizialmente vincente e scintilla della Primavera dei Popoli che avrebbe infiammato l’Europa sino alla Moldavia, accomunate dalla rivendicazione costituzionale, tant’è che Ruggero Settimo (Palermo, 1778 – La Valletta, 1863), capo del governo rivoluzionario che ripristinò la Costituzione del 1812, offrì la corona di Sicilia ad Alberto Amedeo di Savoia Duca di Genova, figlio di re Carlo Alberto che il 4 marzo 1848 aveva concesso al Regno di Sardegna lo Statuto, carta fondamentale del Regno d’Italia sino alla Costituzione repubblicana del 1947. Il Duca rifiutò la corona per impegnarsi nella I Guerra di Indipendenza e il conseguente indebolimento del nuovo Stato consentì a Ferdinando II (Palermo, 1810 –Caserta, 1859) di reprimerlo nel sangue (fig. 4).
Su questa mai sopita aspirazione democratica, costituzionale e parlamentare 2000 “picciotti siciliani” si aggiunsero ai Mille contribuendo in modo determinante, con il loro sacrificio (fig. 5), alla conquista dell’isola da parte di Giuseppe Garibaldi.
1860
Questi più o meno gli antefatti della istituzione nell’isola, con decreto del prodittatore Antonio Mordini (Barga, 1819 – Montecatini, 1902) del 19 ottobre 1860, antivigilia del plebiscito, del Consiglio Straordinario di Stato, in cui i rappresentanti siciliani ottennero che venisse, votata il 20 novembre nella stessa sala grande della Biblioteca Regia, una Relazione al Governo che proponeva un ordinamento federale apparentemente condiviso dalla Luogotenenza voluta l’1 dicembre 1860 a Palermo da Vittorio Emanuele II e abrogata con regio decreto dell’1 febbraio 1862 a favore della visione centralista cavouriana; dell’adesione “plebiscitaria” (86,41 %, ma si recò alle urne meno di un quarto degli iscritti al voto), il 21 ottobre 1860, dei 432.053 siciliani favorevoli, su una popolazione di 2.232.000 abitanti, al Regno d’Italia; e dell’incontro di Taverna della Catena, detto di Teano, il 25 ottobre 1860, tra il nizzardo Garibaldi e re Vittorio Emanuele II di Savoia, le cui rispettive patrie nel mese di aprile si erano espresse, con più alte percentuali (99,26 e 99,75), per l’annessione alla Francia.
La spiegazione del paradosso – la terra che aveva dato origine alla dinastia di quel re gli voltava in toto le spalle e una terra che di quella dinastia aveva avuto non felice esperienza tra il 1713 e il 1718 gli si offriva a braccia aperte fiduciosa che quella esperienza non si rinnovellasse – sta nella aspettativa federale e costituzionale che i siciliani riponevano nella prospettiva “unitaria”.
1946
Avremmo dovuto attendere 86 anni per aver riconosciuto il 15 maggio 1946, sulla carta, un ordinamento autonomista con lo Statuto speciale della Regione Siciliana convertito in legge costituzionale il 26 febbraio 1948, che, quasi a 70 anni di distanza, non è ancora attuato nella sua interezza, specie in ordine all’autonomia fiscale e alla gestione delle risorse minerarie, tra cui riserve di idrocarburi per quattro secoli di indipendenza energetica della Sicilia ove, però, si raffina l’80 per cento del carburante consumato in Italia in cambio solo di disastri ambientali e sanitari con la più alta incidenza di tumori nelle zone delle raffinerie.
2016
Come trovano fondamento in quasi sei secoli di autonoma statualità dell’isola, sia pur sempre sotto corone straniere condivise con altri regni, i tre documenti storici dell’Autonomia siciliana, così lo trova nei 44 anni di battaglie per riguadagnare la Costituzione del 1812, la strenua difesa autonomista ravvisabile nell’esito referendario regionale del 4 dicembre scorso: 71,58 % ai No e 28,42 % ai Si.
Gesualdo Campo