Anche i paesi dell'entroterra tengono insieme l’Italia, non facciamoli morire, facciamoli vivere

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Da qualche tempo i media nazionali lanciano l’allarme sui paesi dell’entroterra abbandonati e messi in vendita a causa dello spopolamento.

Un fenomeno, quello dello spopolamento e dell’abbandono, che in Italia riguarda 2.430 comuni con meno di 5.000 abitanti che soffrono un forte disagio demografico ed economico che si tramuta in un esodo dei giovani, uno spopolamento crescente e, in definitiva, in un declino inarrestabile. Un declino che colpisce soprattutto il Sud, dove dal 2008 al 2015 il saldo migratorio netto è stato di 633 mila persone: 478 mila giovani di cui 133 mila laureati. A questo si accompagna una perdita di popolazione di 2 mila unità nella fascia di 0-4 anni in conseguenza del flusso di bambini che si trasferiscono con i genitori.

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Le conseguenze di questo dramma, non sono solo economiche perché si interrompono attività secolari in agricoltura e nell’artigianato, ma anche sociali e culturali, con la distruzione di memorie e culture locali.

L’abbandono degli immobili di quartieri, un tempo abitati prevalentemente da famiglie di braccianti e contadini, e l’assenza da vasti territori agricoli rappresenta un problema sia sotto il profilo del dissesto idrogeologico, sia per il depauperamento del patrimonio immobiliare. Riprendo e faccio mio l’allarme anzidetto non perché abbia nostalgia della Civiltà contadina e del mondo delle tradizioni, già peraltro scomparse da tempo, ma perché penso che non si tratti del trionfo della modernità, ma al contrario della sua fine. Della fine di tante conquiste civili, del venir meno del diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla sicurezza, di tutti i frutti raccolti negli ultimi due secoli. Ciò perché sull’altare della riduzione e della “razionalizzazione“ della spesa pubblica lo Stato e le Regioni hanno sacrificato tanti diritti, chiudendo o accorpando scuole e presidi sanitari, caserme, riducendo o annullando i collegamenti dei servizi di trasporto pubblico tra paesi dell’entroterra e i centri medio-grandi, con la conseguenza che la gente si è sentita abbandonata e tradita nelle proprie aspirazioni.

Le Istituzioni locali, invece, con in testa i sindaci, di fronte queste scelte e al vuoto di iniziative continuano a lanciare iniziative finalizzate a vendere le case abbandonate al prezzo simbolico di un euro; S. Michele di Ganzaria è stato l’ultimo paese in ordine di tempo a cavalcare questa idea.

Idee encomiabili perché non si configurano come operazioni immobiliari, ma come progetti culturali e sociali di integrazione tra abitanti e “forestieri“ che – nel loro piccolo – possono contribuire al recupero e alla rivalutazione del patrimonio urbanistico e a frenare lo spopolamento. In questo senso molto significativo è anche il progetto del Comune di Riace di vedere nell’accoglienza ai rifugiati la possibilità di rinascita – a prescindere da come si concluderà la vicenda giudiziaria che vede coinvolto il sindaco – perché attraverso questa iniziativa si risolve non solo e non tanto il problema dei rifugiati, ma il proprio problema che è quello di continuare ad esistere come paese, di non morire a causa dello spopolamento e dell’emigrazione. Sulle tante storie di inclusione che hanno come protagonisti altri Comuni, tra i quali Camini, un paesino della Locride, Petruno Irpino, piccolissimo borgo campano, e altri piccoli centri del Nord il Governo dovrebbe avere un approccio positivo: sostenendoli e non tagliando loro i fondi per costringerli a chiudere, come ha deciso di fare con Riace.

Tutte iniziative lodevoli quelle portate avanti da tanti sindaci, ma non esaustive, non solo perché è impensabile che dall’oggi al domani migliaia di persone si precipitano ad acquistare a un euro gli immobili abbandonati (che per essere ristrutturate necessitano di investimenti da decine di migliaia di euro, di cui di questi tempi non è facile disporre), ma anche perché è inimmaginabile colmare lo svuotamento dei paesi riempiendoli di “dannati della terra“ che fuggono dalle guerre e dalla miseria.

Che fare allora per rendere possibile un futuro per questi paesi?

Tre sono le direzioni di marcia che le Istituzioni, in particolare quelle nazionali e regionali dovrebbero perseguire, hic et nunc.

La prima: stimolare e sostenere le famiglie e i giovani – convinti di restare – a portare avanti progetti, che partendo dalle caratteristiche e dalle vocazioni del territorio esaltino le potenzialità dell’agricoltura, del paesaggio, dei prodotti e della cultura dei luoghi, quindi anche del turismo. La seconda: azzerare o ridurre drasticamente la tassazione statale e locale ad artigiani e piccoli commercianti che restando nei paesi dell’entroterra garantiscono servizi essenziali (penso ai barbieri, ai falegnami, ai panettieri, ai bottegai, ai gestori di bar, farmacie, ecc…), senza i quali è difficile restare nei borghi, anche per la difficoltà di movimento che si registrano in inverno per la mancanza di collegamenti con i centri più grandi ed a causa di un sistema viario vetusto e privo di qualsiasi manutenzione degna di questo nome. Terzo: sostenere i progetti socioculturali delle amministrazioni locali finalizzati all’integrazione tra comunità locali e forestieri e, inoltre, favorire le iniziative delle Pro-Loco che svolgono una attività, basata sul volontariato, veramente ammirevole. Un volontariato incarnato da uomini e donne che continuano ad operare – scontrandosi spesso con difficoltà inenarrabili – per far conoscere, valorizzare e affermare il diritto a esistere di tanti piccoli e piccolissimi centri dell’entroterra.

Animati dall’amore per il paese natio, per il legame con la natura, per il gusto delle cose semplici, per la solidità dei rapporti affettivi, per la solidarietà e per il valore della vita umana, virtù queste che non dovrebbero disperdersi, mai.

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