Vi sembrerà strano, forse anche inverosimile, ma è sorprendentemente vero, il tasso di occupazione in Italia, nel 1861, era simile a quello attuale: il 59 per cento contro il 58 per cento del 2017.
Confrontando i dati di allora con quelli del 2017 quello che balza agli occhi è che quel 59 per cento di tasso di occupazione è identico a quello del Centro-Nord e a quello del Mezzogiorno. Il 58 per cento del 2017, invece, è la media tra il 65 per cento del Centro-Nord e il 44 per cento del Sud.
A distanza di 156 anni il tasso di occupazione è sceso di 31 punti in Calabria, 18 punti in Basilicata e Abruzzo, 16 punti in Campania e di 8 punti in Sicilia. Mentre è aumentato di 15 punti in Veneto, 11 punti in Toscana, 10 punti in Emilia Romagna, 8 punti il Liguria, 7 punti in Umbria e di 5 punti in Piemonte.
Quindi nel 1861, al momento dell’Unità d’Italia, il forte divario tra il Nord e il Sud del Paese non esisteva.
Anzi. Il tasso di occupazione nel 1861 vedeva ai primi 3 posti Calabria, Abruzzo e Molise; la Sicilia in questa particolare classifica con il 49 per cento si collocava al decimo posto. Nel 1917 la nostra Isola, invece, ha un tasso di occupazione pari al 41 per cento, 8 punti in meno rispetto al 1861.
Ma quello che vi sembrerà ancora più strano e più inverosimile, ma anche questo è sorprendentemente vero riguarda il trattamento economico,la retribuzione dei lavoratori. Un muratore di prima categoria nel 1861 guadagnava di più in Sardegna, Liguria, Sicilia, mentre guadagnava di meno in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Toscana.
Questi dati non sono il frutto di una stima – necessariamente approssimativa quando ci si riferisce a epoche tanto lontane – bensì dati espunti da statistiche ritrovate negli archivi dei ministeri, elaborati da due studiosi, entrambi docenti all’Università di Catanzaro, i professori Vittorio Daniele e Paolo Malanima.
Da questi dati ne consegue, osserva Marco Esposito del Mattino di Napoli, che l’attuale divario non va cercato in differenze antropologiche e storiche risalenti al Medioevo o alla antichità, ma nelle iniziative portate avanti nei primi decenni dell’Unità di Italia e più specificatamente all’inizio dell’industrializzazione.
Quindi è falso l’assunto di un Mezzogiorno bello e impossibile, di un Paradiso abitato da diavoli da sempre in ritardo che giustifica la tesi che è inutile e inopportuno investire al Sud.
Poiché, come abbiamo visto, le cose non stanno così occorre sul terreno degli investimenti pubblici e privati invertire la rotta e aprire una nuova stagione. Nuovi investimenti pubblici sono indispensabili soprattutto perché la dotazione delle infrastrutture, materiali e immateriali, del Mezzogiorno è particolarmente carente. E senza moderne infrastrutture – a cominciare da quelle di trasporto, della comunicazione e della ricerca – è impossibile che le imprese possano ottenere quegli aumenti di produttività di cui c’è tanto bisogno. La produttività non aumenta sottoponendo i lavoratori ad ulteriori sforzi o per decreto o per contratto, ma se l’impresa si colloca in un territorio in grado di fornire quelle economie esterne assolutamente necessarie nel mercato contemporaneo.
La spinta che può venire da nuovi e poderosi investimenti pubblici – che prendono il toro per le corna e si propongono di azzerare nell’arco di un decennio il divario Nord-Sud – è notevolissima.
In un quadro che, nonostante qualche segnale di ripresa, continua ad essere depresso (basti pensare che l’Italia continua ad essere fanalino di coda nell’Eurozona) il loro moltiplicatore è particolarmente alto, forse più alto rispetto a quello che si otterrebbe da una riduzione tout court delle tasse. Ciò perché questo tipo di spesa genera un forte incremento del reddito e dell’occupazione.
Infine, non va trascurato quello che ci dicono gli esperti e gli studiosi più seri e rigorosi quando affermano che 100 euro di investimenti al Sud generano 41 euro di domanda aggiuntiva per le imprese del Centro-Nord, diffondendo nell’intero Paese i loro effetti benefici.La Lombardia, il Piemonte, lo stesso Veneto possono essere locomotive solo di loro stessi, dato che la loro economia è largamente autosufficiente, la loro crescita non genera particolari vantaggi per il resto dell’Italia; l’unica vera locomotiva per il Paese è il Sud.
Quindi investendo al Sud non si riparano solo i torti storici subiti dalle nostre popolazioni, ma si da un contributo rilevante per far ripartire anche la locomotiva italiana.