A una prima lettura del dato elettorale di domenica scorsa emerge il seguente quadro d’insieme: a) la strabiliante vittoria del Movimento 5 Stelle, ottenuta soprattutto al Sud; b) l’affermazione del Centro Destra, che raggiunge il 37 per cento e premia soprattutto la Lega che sorpassa Forza Italia; c) la sconfitta netta del PD, che è più accentuata nel Mezzogiorno, ma non risparmia neppure le cosiddette regioni rosse, dove grillini e leghisti ottengono risultati sino a qualche tempo fa inimmaginabili; d) il risultato assolutamente deludente dei movimenti politici collocati a sinistra del PD (Liberi e Uguali e Potere al Popolo) che insieme sfiorano appena il 5 per cento e, nel contempo, la scomparsa del centro, vale a dire di quelle formazioni politiche di stampo moderato.
Etichettare il voto ai 5 Stelle ed alla Lega come un semplice voto di protesta dettato da rabbia, rancore e amarezza mi sembra una valutazione parziale; perché quando una forza politica raggiunge o supera la percentuale del 50 per cento del consenso, come è avvenuto in moltissimi collegi del Mezzogiorno, vuol dire che nel voto c’è anche una domanda di cambiamento di alternativa politica. C’è un rifiuto ad accettare le stesse facce e gli stessi programmi presentati in tante tornate elettorali senza che i problemi del Sud, in tutti questi anni, siano stati risolti. Anzi per molti aspetti i mali del Meridione, con il trascorrere degli anni, si sono aggravati come è confermato dalla crescita del divario tra il Nord e il Sud del Paese.
Minimizzare lo tsunami che si è abbattuto sul PD, che ha raso al suolo in tante realtà intere classi politiche dirigenti, o considerare il voto solo il frutto della crisi che ha colpito e ridimensionato la sinistra in tanti Paesi europei (Francia, Germania, Austria, ecc) o la conseguenza dell’epurazione dalle liste del PD dei candidati della sinistra interna, mi sembra folle.
Equivale a nascondere la polvere sotto il tappeto, a rifiutarsi di guardare in faccia la realtà che é quella di un partito che, oltre ad essere stato giudicato incapace di dare risposte a problemi ed esigenze di ceto medio, giovani, povera gente, è stato percepito, a torto o a ragione, come una forza politica di potere, disponibile a sacrificare sull’altare del potere stesso gli interessi del proprio insediamento sociale e i valori di una forza progressista.
Un partito, i cui leader nell’azione di governo sono stati visti più protesi a cercare non la legittimazione della loro base sociale, bensì quella dei salotti buoni e dei circuiti finanziari internazionali, incuranti delle conseguenze che quelle azioni avevano sulle condizioni di vita e di lavoro dei ceti più deboli.
Comunque nonostante dal voto i grillini e il centro destra abbiano ottenuto risultati brillanti (gli uni perché si sono presentati come cittadini normali, spogliati dai privilegi della casta, con i loro pregi, difetti ed esperienze -compresa quella di Di Maio di essere stato venditore di bibite allo stadio di Napoli – e con una proposta forte quella del reddito di cittadinanza che parla ai bisogni dei giovani senza lavoro del Sud, la Lega per aver cavalcato il problema delle tasse e dell’immigrazione) entrambi tuttavia non sono in condizione di formare un governo che possa contare su una maggioranza autosufficiente.
Considerato che neppure l’ipotesi bislacca di una alleanza Renzi-Berlusconi, paventata o auspicata da tanti prima delle elezioni, avrebbe i numeri per formare una maggioranza, nè è immaginabile, nell’immediato, l’alleanza tra i cinque stelle e la Lega -sebbene abbiano lo stesso approccio su tanti problemi -, l’unica possibilità che resta in campo per cercare di dare all’Italia un governo è quella di stringere un accordo tra i cinque stelle e il PD che, al momento, si scontrerebbe con la netta ostilità di Renzi.
I numeri per un accordo del genere ci sarebbero sia alla Camera che al Senato, ma è difficile che il PD sia disposto ad immolarsi sull’altare della governabilità, anche a causa delle differenze programmatiche esistenti tra i due soggetti politici e delle asprezze della campagna elettorale, i cui toni non si sono ancora abbassati.
Quindi un bel rompicapo per il Presidente della Repubblica; le cui prerogative non sono quelle di dare il mandato per formare il governo a chi ha ottenuto più voti, come qualcuno pensa erroneamente, bensì consultare tutte le forze politiche e sulla base delle delle loro valutazioni e indicazioni dare il mandato a quella personalità che a giudizio del Presidente ha più possibilità di ottenere la fiducia dal Parlamento. Tutto il resto sono chiacchiere da bar dello sport, con tutto il rispetto che si deve agli amanti dello sport.