Tempo scaduto. Tutto rimandato alla prossima legislatura. Con il decreto di scioglimento delle Camere, firmato giovedì dal presidente Mattarella, si ingrossa il purgatorio delle leggi rimaste in sospeso. A far rumore ci sono soprattutto i provvedimenti in favore dello ius soli e dei caregiver, destinati a rimanere, sin qui, lettera morta. Sul fronte caregiver, nel 2017 qualcosa comunque si è mosso. Con la diciassettesima legislatura, il movimento che ha portato avanti la battaglia per il riconoscimento del ruolo di chi, consanguineo o coniuge, quotidianamente si prende cura dei disabili ha messo a segno un risultato importante, almeno sulla carta: nella legge di Stabilità 2018 è stato inserito un capitolo di spesa, tramite la creazione di un Fondo, riservato proprio ai caregiver familiari, sancendo di fatto il riconoscimento, se non sostanziale, quantomeno formale di queste figure. Fondo pari a 60 milioni di euro da erogare nei prossimi tre anni, che si aggiungono a quelle già previste dalla legge 104. Peccato però che in assenza di una legge che stabilisca normativamente chi e cosa è un caregiver non si sa a chi debbano andare questi soldi. Una vittoria di Pirro, insomma, che ha scatenato la protesta delle famiglie disabili.
Ma perché, a un passo dallo sprint finale, si è arenato tutto? Come si è arrivati a perdere un occasione storica, dopo decenni di battaglie?
Scioglimento anticipato delle Camere a parte – che comunque sancisce la fine di una legislatura già prossima di per sé alla naturale scadenza -, quello della stesura di un disegno di legge unitario e completo in materia di caregiver è stato un cammino lungo e tortuoso. Forse troppo per garantire un percorso rapido all’approvazione di una legge di cui l’Italia non può non dotarsi. Il testo, il cui iter si è interrotto con la caduta del Governo Gentiloni dopo essere rimasto fermo in commissione Lavoro al Senato, è il prodotto della sintesi di tre distinti disegni di legge. Sintesi scarsamente condivisa tanto dai diversi schieramenti politici quanto dalle associazioni, che nel frattempo si sono spaccate.
“La legge quadro cui siamo approdati era e resta perfettibile, ma non si può negare che si tratti di un primo passo fondamentale: quel primo passo del riconoscimento giuridico che ci serviva per uscire dai margini e senza il quale non potrebbero esistere tutele e sostegni economici”. La voce è quella di Angela Rendo, adesso vice presidente dell’associazione 20 novembre 1989 ma per anni vice presidente del Coordinamento nazionale famiglie disabili, uno dei primissimi gruppi in Italia a sollevare la questione.
Dal Coordinamento, Rendo, mamma battagliera di un ragazzo disabile, si è tirata fuori: “Il primo disegno di legge in materia di caregiver, quello a firma della senatrice Laura Bignami, andava necessariamente emendato: innanzitutto proponeva una definizione molto ristretta di chi sia e cosa faccia il caregiver familiare, escludendo ad esempio il coniuge o il partner convivente”. Cosa che, dopo il riconoscimento delle unioni civili, avrebbe aperto la strada a sicuri ricorsi da parte di chi sarebbe rimasto tagliato fuori dalla previsione normativa.
“Il primo testo”, spiega ancora Angela Rendo, “prendeva in considerazione solo le forme più gravi di disabilità, mentre invece sappiamo che non è il possesso delle autonomie di base (ad esempio bere e mangiare senza bisogno di aiuto esterno) a rendere pienamente autosufficiente, e quindi ‘libero’ dall’ausilio del familiare, il disabile”. Una miopia culturale e umana, prima ancora che di ordine pratico, che dimostra quanto l’Italia, classe politica da un lato e associazioni dall’altro, sia disorientata e normativamente carente rispetto a una precisa definizione di tutte le diverse forme di disabilità. Carenza che è insieme assenza di progettualità a lungo termine e di presa in carico totale, e quindi non solo economica, delle famiglie dei disabili da parte della società. Secondo la vice presidente dell’associazione 20 novembre 1989, il testo attualmente in XI Commissione al Senato “ha il merito di non aver limitato la questione a percentuali di invalidità riconosciute o a condizioni precise di handicap”, facendo generico riferimento alla non autosufficienza, di cui però attualmente non esiste univoca definizione normativa. Un gap che dovrebbe essere colmato tramite l’applicazione della disciplina e dell’organizzazione dei servizi territoriali di ciascuna regione. Ma, anche in questo caso, c’è molta disomogeneità tra regioni del Nord e Mezzogiorno.
La partita, quindi, resta aperta ed è lungi dall’essere risolta. “Per l’ennesima volta – conclude Rendo – abbiamo assistito a una ‘guerra tra poveri’, una lotta tra disperati che si contendono le briciole di un welfare lontano dall’essere pienamente inclusivo. Dal canto nostro, noi familiari siamo stanchi di questa competizione dove vince chi sta peggio, perché la disabilità di un figlio, un fratello, un nipote non è solo un affare pratico di gestione dei bisogni primari e di conti da far quadrare: distrugge interi nuclei, matrimoni, persone. Ecco perché siamo destinati a fare poca strada se la società e lo Stato continueranno a intenderla come una questione per e tra disabili”.
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