L’assegnazione del premio Giuseppe Fava a 40 anni dal suo assassinio. Il tempo di una vita, o di un soffio

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Quarant’anni. Questo è tutto ciò che separa quella fredda serata catanese del 5 gennaio 1984 in cui il giornalista Giuseppe Fava veniva assassinato da “Cosa Nostra”, dal momento attuale. Quarant’anni, quattro decadi: “il tempo di una vita, o di un soffio” per Claudio Fava, figlio di “Pippo”. E quando riflette su questo periodo l’ex procuratore regionale antimafia non può anche fare a meno di condensare tutte le sue riflessioni su quante cose siano davvero cambiate in questo lasso di tempo, e su quanto ancora ci sia da cambiare, nella nostra terra e soprattutto nella nostra mentalità. Un’analisi che è stata portata avanti da lui e dagli altri relatori dell’evento di assegnazione del Premio Nazionale Giuseppe Fava 2024, avvenuto ieri pomeriggio presso il Centro Zō Culture Contemporanee di Catania. A moderare l’incontro è stata la giornalista Luisa Santangelo, la quale ha alternato, intrecciato e collegato tra loro i “due giri” di interventi di Pierangelo Buttafuoco (giornalista e scrittore), Michele Gambino (giornalista e scrittore), Sebastiano Ardita (magistrato e componente del CSM), e il già citato Claudio Fava (giornalista, scrittore, personaggio politico).

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Prima dell’inizio del dibattito è stato ricordato come il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella abbia inviato un messaggio e un attestato di stima nei confronti di Giuseppe Fava proprio in occasione di questa giornata di commemorazione e ricorrenza; poi si è dato il via al confronto – che aveva lo scopo di “preservare la memoria, ma non solo” -, con un interrogativo: “Perchè è così difficile trovare intellettuali nella nostra terra?”
A rispondere è stato Pierangelo Buttafuoco, definito e presentato come “un intellettuale di destra”. Due definizioni che lui stesso ha etichettato ironicamente come “da querela”. A prescindere da questa nota iniziale, il dottor Buttafuoco nel suo primo intervento ha sottolineato come l’onestà intellettuale incarnata da Giuseppe Fava oggi a suo parere sia morta, e ha paragonato il giornalista vittima della mafia, in virtù della sua statura morale, a figure come Cyrano de Bergerac, Galilei e Socrate. Inoltre ha puntualizzato – per sottolineare le criticità della situazione attuale con un’immagine forte – come nella Catania di quarant’anni fa, nonostante tutti i problemi, “perfino gli omertosi avevano una capacità di parola superiore agli indifferenti di oggi”. Per rispondere nel merito alla domanda che gli era stata posta (come mai gli intellettuali vanno via dalla Sicilia) si è espresso in questo modo: “quello che sanno fare, qui non lo possono fare”, e ha confessato anche che questa riflessione faceva riferimento ad una sua scelta personale. Anche ai nostri microfoni, ad una domanda relativa al ruolo degli intellettuali nella lotta alla mafia, ha rifiutato per sè questa definizione, citando invece un’importante figura del passato.

Successivamente è stato chiesto a Sebastiano Ardita “Dove deve guardare la giustizia per fare qualcosa di buono per Catania”?
Il “papabile” nuovo procuratore capo della città – così come è stato presentato – ha sottolineato che il processo di messa in luce dell’illegalità non è molto differente da una città italiana all’altra, ma ciò che è diverso di volta in volta sono le condizioni che generano la delinquenza. Infatti nella città di Catania, a suo parere, vi è un forte problema sociale che genera i fenomeni criminali di cui tutti sappiamo, ma ciò è soltanto un sintomo, non la radice stessa del problema. Il dottor Ardita si è poi detto preoccupato perchè a suo dire non c’è una risposta istituzionale complessiva per contrastare la mafia che abbia memoria di ciò che è già accaduto, e in questo senso si è detto molto critico nei confronti della riforma Cartabia, del recente divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, e della mancanza sempre più evidente di magistrati. Infine ha sottolineato come, dimenticandoci del passato e del fatto che la storia è fatta di “corsi e ricorsi”, rischiamo di tornare alla situazione degli anni ’80. Interpellato in secondo luogo su come scardinare il potere che le famiglie mafiose (sempre le stesse da generazioni) esercitano sul territorio Ardita ha spiegato i due ordini di motivi per i quali è difficile eradicarle. In primo luogo per la loro capacità di “auto-conservazione” e preservazione, che permette alle famiglie mafiose di “rigenerare” dei rapporti con la politica, e ancorarsi al potere nonostante l’avvicendarsi dei tempi e delle persone. In secondo luogo la mentalità che hanno i ragazzi vicini ai clan nel concepire il boss come un mito, come un esempio da seguire; concezione che andrebbe sdradicata e sostituita da un modello che li integri nella società e nella legalità.

In seguito la parola è passata a Michele Gambino, il quale, dopo aver messo in luce tutti i problemi che gravitano attorno al giornalismo attuale – la mancanza progressiva di copie cartacee vendute, il senso di “irrilevanza” che si prova nel pubblicare una notizia nell’indifferenza generale, la tendenza a favorire i contenuti “clickbait” – ha comunque ribadito, nonostante questo scoraggiamento e queste note dolenti, la sua voglia di non arrendersi – motore ultimo che lo ha spinto anche a creare una scuola di scrittura e giornalismo insieme a Claudio Fava (Itaca) -, sottolineando che presto avremo nuovamente bisogno di un giornalismo fatto di seri approfondimenti, reportage, inchieste e non di notizie “flash” prodotte in serie (in alcune realtà si arriva anche a 30/40 notizie postate al giorno da un singolo giornalista, paragonato ad un “pollo da batteria”).

Infine, ad esprimersi sul senso di irrilevanza che il giornalista può provare in questo periodo storico, è stato chiamato Claudio Fava. Di fronte ad una lunga lista di casi di cronaca di politici collusi con la criminalità organizzata (ormai noti e alla luce del sole) l’ex procuratore antimafia si è stupito di come il dibattitto dell’opinione pubblica sia comunque monopolizzato da temi legati al gossip o che distolgono l’attenzione da scandali importanti e ancora in corso; come ad esempio la discussione su quanto sia opportuno il rientro di Totò Cuffaro in politica. Claudio Fava ha anche sottolineato come il rischio più grande dei tempi attuali sia l’indifferenza, e come la vera domanda da porci rispetto al passato non sia “quante cose sono cambiate in 40 anni?”, ma: “quanto siamo cambiati noi, come cittadini in 40 anni?”. Evidentemente poco, per interpretare in maniera neutra, come se fosse la normalità, il fatto che l’ex presidente di Confindustria Catania abbia pagato per vent’anni il pizzo alla mafia. Ed è quindi per questo che sì, da 40 anni a questa parte è cambiato tanto, ci sono stati arresti importanti e tante vittorie per la legalità, ma per certi versi è come se non fosse cambiato poi molto; ed è come se 40 anni fossero appunto il tempo di una vita, e al tempo stesso di un soffio.

Claudio fava ha anche ricordato come oggi manchi la volontà e la capacità di capire gli altri, e di immedesimarsi nelle loro ragioni. Oggi, dice, sarebbe impensabile invitare ad un evento antimafia un giornalista che ha scritto articoli come quelli di suo padre “Arringa in difesa del cavaliere mafioso” o “Quanto costa un buon killer” per via del perbenismo imperante che vede come disdicevole l’operazione provocatoria di svestire i propri panni e cercare di capire le ragioni altrui.

Alla fine degli interventi è stata chiamata sul palco Francesca Andreozzi, Presidente dell’Associazione Fava, che ha proclamato come vincitore dell’edizione 2024 del Premio Nazionale Giuseppe Fava il giornalista Francesco La Licata. Impossibilitato a presenziare per ragioni di salute, il premio è stato consegnato al giornalista Daniele Lo Porto dell’Assostampa.

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