Sicilia, vecchi e nuovi legami di appartenenza: sempre più turisti la scelgono, ma gli emigrati se ne allontanano sempre di più

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I dati riferiti alle presenze turistiche in Sicilia nei primi nove mesi di quest’anno sono molto incoraggianti e, secondo alcuni indicatori, sono destinati a crescere ulteriormente.

Infatti i numeri ci dicono che nei primi nove mesi del 2023 i turisti che hanno scelto la nostra isola sono stati oltre 13 milioni, per l’esattezza 13.384.851. Questi dati, confrontati con quelli dello stesso periodo dell’anno scorso, fanno segnare un incremento in valori percentuali pari al 5,8 per cento.

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Conforta anche sapere che, sempre nei primi nove mesi di quest’anno, 6.443.933 dei turisti che hanno visitato la nostra regione sono stranieri, prevalentemente di nazionalità francese, tedesca e americana.

Ho accennato a questi numeri non tanto perché voglio enfatizzarli, quanto perché cozzano con la scelta di molti dei nostri emigrati; i quali, rispetto al passato, non scelgono più la Sicilia come luogo dove trascorrere le loro vacanze.

Fino a qualche anno fa, invece, i siciliani che erano emigrati al Nord o all’estero d’estate non vedevano l’ora di ritornare nei loro paesi d’origine. Questa cosa succede ancora ma ho notato, da qualche estate a questa parte, che quelli che ritornano sono sempre di meno.

Capita sempre più spesso invece che gli emigrati, in particolare i giovani siciliani, trascorrano solo pochi giorni dei loro periodi di ferie nei paesi dove sono nati, e poi vadano in vacanza altrove, magari all’estero.

Se penso agli anni settanta, quando io ero ancora a Milano per motivi di studio e di lavoro, ricordo l’euforia quando in agosto dovevo scendere in paese.

Guidavo la mia cinquecento quasi senza fermarmi per millecinquecento chilometri perché non volevo sprecare nemmeno un’ora del mio ritorno.

E allo stesso modo si comportavano gran parte dei miei compaesani che lavoravano al Nord o all’estero; e quasi tutti i siciliani che incrociavo negli autogrill, dove sostavamo per fare rifornimento e per consumare un panino e un caffè.

Forse perché io e gli emigrati di allora provenivamo da un mondo ancora profondamente ossessionato dal tema dell’identità e dell’appartenenza.

Nonostante la modernità abbia disintegrato un pezzo dei nostri valori per me e per gli emigrati che lasciarono la Sicilia nel dopoguerra e fino all’ultimo decennio del secolo scorso è fondamentale definirsi, appartenere, essere fedele a qualcosa che definirei “la nostra gente“.

Pur vivendo da quasi cinquant’anni tra Catania e Palermo continuo a interrogarmi sulla mia gente, sulla nostra storia, sulla nostra letteratura. Per quanto io non mi sia mai privato di girare il mondo, viaggiando spesso per i cinque continenti, per me l’unità di misura del destino rimane il paese, la conta dei vivi e dei nostri morti, la somiglianza della mia faccia con quella di mio padre, di mio nonno.

Sorrido pensando che nei miei settantacinque anni di esistenza non ho trascorso nemmeno una settimana del mese di agosto lontano dalla mia gente, dal mio paese.

Faccio questa considerazioni non perché voglio criticare i giovani che non sentono così ossessivamente il bisogno di ritornare e di appartenere così fortemente a una comunità, ma perché penso che i giovani abbiano fatto un passo in avanti rispetto a noi.

Perché si sono liberati da un cordone ombelicale e da una malìa ossessiva, e vivono liberamente e senza senso di colpa e della paura di tradire. Tradire la terra, i genitori, gli amici, le storie che attendono una parola di conforto.

All’inizio dell’estate, quando incontro in piazza o al bar i padri o i fratelli di qualche mio vecchio amico emigrato al Nord o all’estero, mi sento ripetere: “quest’anno non scende, ha deciso di andare in Grecia, in Spagna o in America. Forse verrà l’anno prossimo per la festa”.

Rivelazioni dei miei interlocutori che crescono di intensità quando si riferiscono alle scelte dei loro nipoti su dove trascorrere le vacanze.

Le famiglie, i paesi, queste nostre terre sono anche corde che soffocano, lacci, ricatti, litigi eterni che si consumano come faide ancestrali.

Ecco perché capisco chi scappa, chi si libera, chi non vuole ricordare, sapere, vedere.

Ma gente come me, gente che è andata via in tenera età al seguito dei genitori o che è scappata negli anni settanta e ottanta in cerca di lavoro, sente il bisogno di ritornare qui, in questa nostra terra.

Incontrando le nostre comunità in Australia, in Sudamerica, in Belgio e in altri paesi stranieri ho sentito con prepotenza questo bisogno di tornare, l’ho avvertito anche nei loro figli, anche in quelli nati in terre lontane.

C’è chi ha il desiderio struggente di vedere come è cambiato il proprio paese e di abbracciare i pochi parenti o amici ancora in vita e non ha la possibilità di tornare. C’ anche chi ha fame di conoscere la terra d’origine dei genitori e la cultura. E ci sono anche, tra i figli e i nipoti dei nostri emigrati, coloro che pensando di potersi costruire un futuro nella terra dei loro avi.

Qualcuno sostiene, forse a ragione, che il ritorno non rafforza, ma indebolisce.

Probabilmente perché ritornare significa sentirsi in colpa, sentirsi traditori.

Certo fa male vedere i volti invecchiati di genitori, nonni e amici. Fa male vedere come siano cambiati i luoghi dove siamo cresciuti, dove siamo stati ragazzi o giovani. E dopo fa ancora più male accorgersi che quella spensieratezza e quella giovinezza non ci sono più.

Dico questo con un’enorme nodo alla gola, con grande commozione, ma a quelli che sono andati via e non hanno voglia di tornare dico che fanno bene a non essere ossessionati dal ritorno come sono stati quelli della mia generazione, quelli che ritornano ogni anno per la festa del Patrono, che non hanno dimenticato il dialetto del paese e che sono rimasti fedeli alle tradizioni e alle abitudini di un mondo ormai quasi scomparso.

Ma a chi si ritiene svincolato da qualsiasi richiamo della terra che li ha visti nascere e li ha cullati dico che fanno bene perché soffriranno di meno, ma dico anche che niente dura senza questo oscuro sentimento.

Non soffrire è certamente un bene, ma non possedere, non essere posseduto, priva qualsiasi essere umano dell’esperienza dell’appartenenza.

Chi ci governa ed ha a cuore l’interesse e il futuro della Sicilia dovrebbe prestare molta attenzione al fatto che tanti emigrati e i loro figli per le loro vacanze non scelgano più il paese natio, la nostra terra, e vanno altrove. Dovrebbe anche ricordare che una parte significativa di stranieri e connazionali che scelgono la Sicilia come luogo dove trascorrere le loro ferie lo fanno perché i nostri emigrati gli hanno parlato delle sue bellezze, della sua storia millenaria, della sua cultura, della sua enogastronomia.

Evitare che si rompa il cordone ombelicale che lega ancora molti siciliani a questa nostra terra eternamente sospesa tra incantesimo e maledizione dovrebbe essere un dovere primario di chi governa, delle istituzioni locali e di quelle regionali, anche perché investire sugli emigrati di ritorno (anche se semplicemente per il periodo delle ferie) potrebbe avere una ricaduta positiva per la Sicilia, anche dal punto di vista economico.

Tutti si aspettano da chi governa la Sicilia o una qualsiasi istituzione grandi cambiamenti, noi però diciamo sommessamente: prima di cambiare il mondo occorre non tanto interpretarlo quanto saperlo ascoltare.

Salvatore Bonura

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