In Francia la madre di tutte le battaglie: mobilitazione totale contro la riforma delle pensioni

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La mobilitazione del 7 marzo é stata massiccia in tutta la Francia. In molte città i record di manifestanti e scioperanti sono stati battuti. I sindacati hanno comunicato 3,5 milioni di manifestanti; il governo vuole minimizzare e il ministero degli interni dice che erano solo 1,28 milioni. A Parigi 700.000 manifestanti, a Marsiglia 250 mila; manifestazioni in più di trecento città. A Bordeaux 100 mila, a Lione 50.000, 30.000 a Nizza, 25.000 a Tolone. In molte città un numero mai visto tanto grande. Secondo il segretario nazionale della CFDT, Laurent Berger, è stata «una mobilitazione storica». Philippe Martinez, capo della CGT ha detto «la più forte giornata di mobilitazione dall’inizio del conflitto». Scioperi sono ancora in corso e rilanciati a oltranza in tanti settori. E tutti i sindacati hanno indetto una nuova giornata (l’ottava) di mobilitazione generale per l’11 Marzo. I sindacati hanno chiesto a Macron un incontro immediato. Ma il governo per ora rifiuta di rispondere e pretende far passare la legge di riforma.

Mélenchon ha dichiarato: «O si passa allo scioglimento del Parlamento visto che non corrisponde a quello che auspica la stragrande maggioranza del paese oppure si va semplicemente a un referendum».

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Nel suo editoriale, Edwy Plenel, direttore di Médiapart [NT:il più importante quotidiano francese, online, senza pubblicità e sempre in attivo da 15 anni con oltre 80 redattori in regola, grazie alle decine di migliaia di abbonati], scrive «La battaglia contro la riforma delle pensioni è la madre di tutte le battaglie. Non è solo un movimento di protesta tra altri. Ha una triplice sfida decisiva: sociale, democratica e di civiltà, come dimostra l’eccezionale unità sindacale [NT: nell’articolo su Pressenza del 19/2/2023 abbiamo scritto “La rivolta francese contro la riforma delle pensioni è un fatto politico totale”].

Tante sono le ingiustizie di questa riforma, in particolare per le donne, le sue bugie, le sue incoerenze, la sua irresponsabilità, la sua irrilevanza, la sua illegittimità, insomma la sua violenza. La comunicazione del governo è stata rapidamente smascherata dall’accusa dell’economista Michael Zemmour e dalle rivelazioni del deputato socialista Jérôme Guedj [NT: controllore della Commissione parlamentare … il governo ha sciorinato gaffe a ripetizione e false comunicazioni come per esempio quella della promessa di una pensione minima di 1200 euro mentre nella Commissione parlamentare s’è scoperto che riguarda solo qualche migliaio di persone e soprattutto che la riforma volta a tutti i costi da Macron va a vantaggio solo degli impiegati con alti salari].

Ma -continua Plenel- non è stato sufficientemente sottolineato quanto la protesta contro questa riforma non sia l’ennesima mobilitazione, come altre o tra le altre. Il suo numero e la sua tenacia, la sua determinazione e la sua durata, la sua eccezionale unità dimostrano soprattutto che non è né un ritornello né una ripetizione. Chi da due mesi manifesta, sciopera, approva o sostiene, ha compreso la posta in gioco di questa battaglia, decisiva per il futuro del nostro Paese, per la sua futura coesione e per le generazioni che verranno.

Sono tre: esigenza sociale, politica democratica e, per dirla senza mezzi termini, di civiltà, nel senso dell’immaginazione che tiene insieme una società, riunendo i suoi membri in una comunità di destino.

La prima questione è sociale perché la pensione deve essere patrimonio di chi non ce l’ha. C’è voluta la catastrofe universale causata dall’assenza di ostacoli al profitto, allo sfruttamento e all’oppressione, perché sulle macerie del fascismo e del nazismo nascesse la domanda di “sicurezza sociale” per costruire una società coesa che si adopera per porre rimedio ingiustizie e disuguaglianze. Nella sua motivazione, l’ordinanza del 4 ottobre 1945 che la istituisce, questa consapevolezza è nella preoccupazione di consentire a chi non ha patrimonio, eredità o pensione, insomma chi non ha altra ricchezza che il proprio lavoro, di guardare al futuro senza preoccupazioni. “La previdenza sociale è la garanzia data a ciascuno che in ogni circostanza disporrà dei mezzi necessari per assicurare la propria sussistenza e quella della propria famiglia in condizioni dignitose”. Trova, quindi, la propria giustificazione in una preoccupazione fondamentale per la giustizia sociale, risponde alla preoccupazione di liberare i lavoratori dall’incertezza del domani, da questa costante incertezza che crea in loro un sentimento di inferiorità e che è la vera e profonda base della distinzione di classe tra i sicuri possessori di se stessi e il loro futuro e i lavoratori su cui pesa in ogni momento la minaccia della miseria».

La pensione, l’età a cui si ha diritto e l’ammontare delle proprie pensioni, è dunque una conquista recente e fragile. È la garanzia che il lavoro, i suoi disagi, le sue costrizioni, le sue sofferenze, anche le sue malattie professionali, non sono l’unico orizzonte di una vita di una donna o di un uomo che non ha altri mezzi di sussistenza e di sopravvivenza. Apre la porta non solo alla sicurezza materiale, ma anche a una ricompensa sotto forma di tempo e tranquillità, svago e disponibilità, senza contare l’inestimabile beneficio delle relazioni intergenerazionali. I pensionati tutelati, infatti, sono anche antenati protettivi, a beneficio dei nipoti quando i genitori stanno ancora cercando la loro strada.

Questi richiami all’ovvio sono necessari in quanto i discorsi di un potere che si sta costituendo, per promuovere la sua riforma, come difensore proselitista del lavoro, del suo valore e della sua necessità, rasentano l’indecenza. Come osare fare la ramanzina a chi le cui pensioni, dai contributi sui propri stipendi, sono l’unico (e magro) patrimonio accumulato, da parte di chi è proprietario, erede, insomma benestante? Il diritto ad essere ricchi non esclude il dovere di essere rispettosi. Riassumendo le dichiarazioni dei redditi dei membri del governo di Elisabeth Borne, Le Monde ha sottolineato che, il più ricco è quello di Édouard Philippe nel 2017, contava diciannove milionari, che la maggior parte di loro fa parte del 10% più ricco dei francesi e che i suoi ministri detengono una ricchezza media di 1,9 milioni di euro. In altre parole, nessuno di loro conosce la preoccupazione del domani. Per non parlare del numero di loro che, come Olivier Dussopt, ministro del Lavoro, non hanno mai conosciuto il lavoro salariato, le sue costrizioni e le sue sofferenze, avendo avuto il privilegio di fare carriera con la politica professionale, non senza smarrire i propri ideali giovanili lungo la strada [prima era socialista].

La seconda questione è democratica perché questa riforma calpesta la legittimità politica dei sindacati. La scheda elettorale non è l’ultima parola della democrazia: a meno che non appassisca e regredisca, è un ecosistema complesso e vivo che non può essere ridotto alla delega del potere per via elettorale. Comandante unico a bordo, almeno in teoria, il popolo sovrano non vi si esprime se non scegliendo i propri rappresentanti. Ha il diritto di sfidarli contestando, protestando, manifestando. Controlli e contrappesi sono non solo necessari ma soprattutto legittimi di fronte al rischio di abusi di potere da parte di funzionari eletti che vorrebbero confiscare la volontà collettiva a proprio vantaggio individuale. Questo principio democratico è tanto più valido quando il potere esecutivo è monopolizzato da una stessa persona, detronizzando la scelta di tutti per volontà di uno.

Costituzionalmente “democratica e sociale”, dalla fine della seconda guerra mondiale, la Repubblica francese ha sancito per legge la legittimità e la rappresentatività dei sindacati. Ancora in vigore e aggiornata da allora, questa legge dell’11 febbraio 1950 seguì una prima bozza di riconoscimento nel 1936 durante il Fronte popolare che fu messo in discussione dallo stato francese di Vichy (il governo collaborazionista dei nazisti).

I sindacati sono quindi pienamente attori di diritto nella vita democratica, legittimi quanto i parlamentari. Lo sono tanto più perché esprimono gli auspici, le speranze e le esigenze di un mondo del lavoro poco rappresentato nell’Assemblea Nazionale, figuriamoci al Senato, dove dominano dirigenti e alte professioni intellettuali [che avranno pensioni di non meno di 10-15 mila euro al mese]. Dalla previdenza sociale (nel 1945) all’indennità di disoccupazione (nel 1958) e il salario minimo garantito, i sindacati furono anche gli artefici della protezione sociale francese, obbligando i governi ad agire a beneficio del maggior numero di persone.

La vittoria che Emmanuel Macron cerca di ottenere è su questo terreno politico: imporre una concezione regressiva e impoverita della democrazia, confiscatoria e autoritaria, che escluda i controlli e gli equilibri sociali.

L’ostinazione del governo a imporre la riforma delle pensioni, nonostante l’unanime opposizione sindacale, nasconde dunque una questione politica: porre fine a questo riconoscimento del “contributo essenziale dei sindacati alla democrazia”, come hanno scritto tre ricercatori . Queste riforme forzate, sottolineano, “non degradano solo i diritti dei lavoratori dipendenti e dei disoccupati. Attaccano la legittimità stessa delle organizzazioni sindacali a partecipare alla gestione della protezione sociale”.

La vittoria che Emmanuel Macron cerca di ottenere avviene su questo terreno politico: imporre una concezione regressiva e impoverita della democrazia, confiscatoria e autoritaria, che escluda i contropoteri sociali, in primis i sindacati, a vantaggio del solo risultato di legittimità delle elezioni presidenziali. Che però è molto povera e fragile poiché si basa su un voto negativo a maggioranza di fronte al rischio dell’estrema destra. Il presidenzialismo obbliga, impone tuttavia il suo “colpo di stato permanente” ai parlamentari che, lungi dal proporre e inventare leggi, sono il più delle volte chiamati a sottomettersi docilmente ai voleri del potere esecutivo, come dimostra anche l’attuale abbrutimento delle leggi nazionali rappresentazione.

Con la sua consueta moderazione, il sociologo Pierre Rosanvallon, storicamente vicino alla CFDT, ha tuttavia contestato questa legittimità istituzionale rivendicata dal Presidente della Repubblica. “Qualificare legittimo il progetto di riforma delle pensioni, come fa Emmanuel Macron, ha spiegato, è tanto più rischioso in quanto la stessa legalità procedurale si basa su un dato aritmetico che, in società così divise come la nostra, è sempre più fragile. Le maggioranze si sono infatti accorciate sempre di più e spesso sono le maggioranze negative di secondo turno a relegare in secondo piano i programmi di primo turno. […] In un tale contesto, la legalità processuale, certo, rimane, ma ha bisogno di altro, per affermarsi e funzionare, di legittimità morale e sociale».

[NT senza parlare del fatto che abbiamo sempre più parlamenti e in Francia presidenti della Repubblica eletti da una minoranza di votanti!].

Un modo garbato per ricordare che, contrariamente a quanto ha detto, Emmanuel Macron non ha ricevuto un mandato esplicito per la sua riforma delle pensioni e che non può imporla quando tutti i sindacati si oppongono, in un fronte unito senza precedenti. Inedita da molto tempo, questa unità è il bene più prezioso del movimento attuale, tanto più che è guidata da funzionari, Laurent Berger per la CFDT e Philippe Martinez per la CGT, che non hanno alcuna partecipazione personale in essa, dal momento che entrambi sono alla fine del loro mandato a capo dei loro sindacati.

Da questo punto di vista, l’espressione delle proprie ambizioni politiche da parte di Jean-Luc Mélenchon attraverso il superamento dei sindacati o la critica ai loro dirigenti non serve la causa del movimento sociale, indebolendolo e dividendolo [NT questa valutazione di Plenel può essere considerata discutibile]. La tragica storia del movimento operaio, in particolare di fronte all’ascesa del fascismo a cavallo degli anni Trenta, dovrebbe tuttavia ricordargli quanto siano vitali queste dinamiche unitarie, il superamento delle differenze e dei contrasti, quando, al contrario, le divisioni sono fatali.

Perché è dimenticare che dopo il cocente fallimento del movimento dei gilet gialli contro l’alto costo della vita, fonte di risentimento e quindi di confusione, la mobilitazione in corso è l’unica leva per costruire un’alternativa popolare alla forza politica che, ormai, è non più solo in agguato ma già alle porte del potere: il Raggruppamento Nazionale e l’estrema destra che federa [ilpartito di Le Pen].

La terza questione è di civiltà perché l’ostinazione del potere fa il gioco dell’estrema destra.

Non è irrilevante che Laurent Berger e Philippe Martinez abbiano iniziato mostrando la loro unità firmando una piattaforma comune, nell’aprile 2022, per allertare “sul pericolo rappresentato da Marine Le Pen e dal suo partito”. E non è inutile rileggerlo perché mostra un accordo fondamentale su principi politici e i valori democratici.

“Il Raduno Nazionale non è cambiato”, hanno detto i due dirigenti sindacali. Come il Front National a suo tempo, è profondamente radicato nella storia dell’estrema destra francese, razzista, antisemita, omofoba e sessista. Tutto il suo programma è incentrato sul rifiuto dell’altro e sul ripiegamento su se stesso. La preferenza nazionale, ribattezzata priorità nazionale, è al centro di ciascuna delle sue proposte. Inserendolo nella Costituzione, come ha promesso, Marine Le Pen vuole minare uno dei fondamenti della nostra Repubblica, l’uguaglianza tra tutti i cittadini. Non vogliamo quella società. Ogni giorno, i nostri gruppi combattono contro la discriminazione, qualunque essa sia. Questo contropotere, Marine Le Pen intende farlo sparire. Favorendo la nascita di una miriade di piccoli sindacati corporativisti “interni”, vuole indebolire le organizzazioni sindacali rappresentative e limitare la difesa dei lavoratori”.

“Farà lo stesso, senza dubbio, con tutta la società civile organizzata che si frapporrà sulla sua strada. Il suo progetto vuole cancellare i diritti fondamentali delle donne conquistati da associazioni e sindacati, non prevede alcuna misura per lottare efficacemente contro il riscaldamento globale che minaccia il futuro del nostro pianeta. D’altra parte, mostra compiacenza, persino solidarietà con molti autocrati di ieri e di oggi che limitano le libertà individuali (Orbán, Bolsonaro, Trump, ecc.) o non esitano a fare la guerra per estendere il loro territorio (patatine al formaggio).

“Siamo due attori (i due dirigenti sindacali citati prima) impegnati che credono, nonostante le loro differenze, nel potere del dialogo e dell’azione collettiva per costruire una società più giusta. Siamo due leader di organizzazioni che non si rassegnano a vedere l’estrema destra al potere. Il Raduno Nazionale è un pericolo per i diritti fondamentali dei cittadini e dei lavoratori. Non può essere considerato come i partiti repubblicani, rispettosi e garanti del nostro motto, libertà, uguaglianza, fraternità. Non affidiamogli le chiavi della nostra democrazia, a rischio di perderle».

Emmanuel Macron, che ha approfittato del voto antifascista ed eletto per la seconda volta per bloccare l’estrema destra, farebbe bene a rileggere questo forum, proprio come chi accompagna la sua fuga in avanti da pompiere incendiario. Lungi dallo spegnere il fuoco cocente – l’avvento nel 2027 dell’estrema destra alla presidenza della Repubblica francese – la sua politica di colpo di forza lo alimenta e lo mantiene. In primo luogo perché porta alla disperazione, smobilita e demoralizza coloro i cui voti sono stati truffati, il Presidente si comporta come se avesse ottenuto un assegno in bianco e non tiene conto della diversità politica dei voti che ha ricevuto. Ma, più essenzialmente, perché l’ideologia che lo anima, fatta di competizione e concorrenza, di forza e dominio, porta con sé un immaginario politico che, lungi dall’opporsi a quello dell’estrema destra, gli prepara il terreno.

L’ideologia del macronismo è infatti il “darwinismo sociale”. Tradendo il pensiero di Charles Darwin – facendo della selezione il motore delle società umane, nonostante il naturalista avesse mostrato quanto l’aiuto reciproco sia al centro della natura – questa visione del mondo valorizza i vincitori e i conquistatori, i forti e gli ambiziosi, i campioni ei potenti, a scapito dei perdenti e dei deboli, dei titubanti o dei modesti. Più aneddoticamente, lo ritroviamo nelle uscite presidenziali che tante volte hanno sconvolto, ad esempio su persone “che non sono niente” o “la strada che basterebbe attraversare per trovare lavoro”.

Tuttavia, un recente lavoro di due storici francesi ha evidenziato la connessione tra questa ideologia, che valorizza la lotta e la lotta per imporsi e avere successo, e l’immaginazione gerarchica specifica dell’estrema destra. Mentre Grégoire Chamayou, in La Société ingouvernable, traccia la genealogia del liberalismo autoritario guidato negli Stati Uniti dai circoli imprenditoriali negli anni ’70, Johann Chapoutot, in Libres d’obéir, fa risalire addirittura al nazionalsocialismo tedesco quella gestione imprenditoriale. Affrontando il nazismo non come una realtà politica mostruosa che sarebbe definitivamente finita e, per di più, estranea alle nostre società, Chapoutot vede in esso “l’immagine distorta e rivelatrice di una modernità impazzita”: “Il nazismo non è né un UFO caduto dal cielo né un fulmine che sarebbe caduto inavvertitamente sull’Europa. È il prodotto di una maturazione culturale propria dell’Occidente capitalista liberale, di cui è una delle espressioni.»

Allora, combattere l’estrema destra significa opporsi ad essa con un’immaginazione radicalmente competitiva che non si abitua alla sua ideologia identitaria della disuguaglianza in cui i gruppi umani, le civiltà, le origini, le credenze, le apparenze, i generi, ecc., sono intrinsecamente superiori agli altri. Non è certo con la politica di cui il colpo di forza delle pensioni è il simbolo emblematico che scongiureremo il rischio dell’avvento di un regime basato su questa legge del più forte.

È invece nella diga di questa riforma che si costruisce l’unica valida alternativa: quella di una società unita. Ed è per questo che dobbiamo metterci tutta la nostra forza.

* traduzione di articoli di Edwy Plenel (direttore di Médiapart) et al. fonte Edwy Plenel 8 marzo 2023 https://www.mediapart.fr/journal/france/080323/retraites-la-grand-mere-des-batailles

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