Un team guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica ha realizzato una simulazione dell’evoluzione di una remota regione di formazione stellare che riesce a descrivere con un livello di dettaglio mai raggiunto prima la sua storia, per un intervallo di tempo di quasi un miliardo di anni.
Studiare una lontanissima porzione di universo, simulandone l’evoluzione per i primi 900 milioni di anni dal Big Bang segnata dal ciclo completo di stelle di grande massa e ricavando le sue proprietà fisiche con un livello di dettaglio dell’ordine di un anno luce, un’accuratezza mai raggiunta prima per questo tipo di studi. A riuscire in questo compito è stato un gruppo internazionale di ricercatori guidato da Francesco Calura, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Bologna e a cui hanno partecipato anche colleghi delle Università degli Studi di Milano Bicocca e Ferrara. “Le nostre simulazioni sono le prime ad includere un modello dell’emissione di energia e massa nel mezzo interstellare di stelle singole in contesto cosmologico e con codice a griglia” dice Calura. “Questo significa che il nostro codice è stato in grado di modellare l’esplosione di ogni singola supernova mai nata, mentre in simulazioni più tradizionali il feedback stellare, ovvero l’immissione di energia e materia nel mezzo circostante, veniva modellato considerando le stelle come particelle macroscopiche, che rappresentano intere popolazioni stellari e quindi insiemi molto più grandi di stelle e di supernovae, perdendo così informazioni preziose su processi e interazioni che avvengono su scale dell’ordine di qualche anno luce”.
Le simulazioni permettono di studiare i processi di formazione stellare di una determinata porzione di universo per una lunga frazione della storia cosmica e con una risoluzione mai così alta in contesto cosmologico. I ricercatori sono stati in grado di ricostruire in modo molto accurato la distribuzione della materia in condizioni di alta densità e pressione, proprietà tipiche del mezzo turbolento presente nelle nubi molecolari da cui si formano le stelle. Ma c’è di più. Le simulazioni sono in grado di riuscire a riprodurre i dettagli fisici delle ‘bolle’ (bubbles, in inglese) generate anche da poche singole stelle massicce, le maggiori responsabili del ‘feedback’ stellare.
La realizzazione di queste nuove e dettagliate simulazioni, i cui risultati sono stati appena pubblicati in un articolo della rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, è stata possibile combinando un nuovo metodo per l’implementazione del feedback stellare, molto sofisticato, con l’utilizzo di un Supercomputer di ultimissima generazione, il BigRed200 dell’Università dell’Indiana (USA).
“Il nostro lavoro rappresenta una diramazione teorica di un progetto ad elevata leadership INAF che coinvolge esperti di ammassi globulari, galassie ad alto redshift e lensing gravitazionale, che ha permesso la scoperta di sistemi ultra-densi nell’Universo remoto, evento che ha dato il via al programma” ricorda Calura.
“Le nostre simulazioni hanno una valenza importante perché ci forniscono informazioni per rispondere ad uno dei più’ grandi e datati quesiti dell’Astrofisica, ovvero la comprensione teorica della formazione degli ammassi globulari in contesto cosmologico – prosegue Calura. La nostra ignoranza riguardo ai processi fisici che avvengono in questi sistemi è molto grande, ed il nostro limite è rappresentato dalla scala più piccola che siamo in grado di sondare. Grazie alle nostre simulazioni siamo in grado di fornire una descrizione fisica di tutto ciò che accade su scale dell’ordine di un anno luce o addirittura meno. La ricaduta di questi risultati è notevole, poiché il telescopio spaziale James Webb sta aumentando in modo impressionante la statistica dei sistemi compatti come quelli che abbiamo studiato nelle nostre simulazioni”.
“Le simulazioni da noi sviluppate rappresentano un punto di partenza su cui costruire modelli ancora più dettagliati e sofisticati, impensabili fino a qualche anno fa e destinati a sostituire gli attuali “zoom” focalizzati su galassie singole, che hanno tipicamente risoluzione di qualche decina di anni luce e, quindi, inadatte a modellare strutture di dimensione di qualche centinaio di anni luce, in realtà già osservabili con il James Webb anche senza l’aiuto del fenomeno delle lenti gravitazionali” conclude Alessandro Lupi, ricercatore presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca e associato INAF.
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