A.A.A Partito Democratico cercasi. Che fare per risorgere?

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All’indomani di qualsiasi consultazione elettorale ai partiti che escono sconfitti dalle urne vengono indirizzati, dall’interno e dall’esterno, strali ed epiteti d’ogni tipo, e vengono dispensate ricette in grado di far risorgere pure i morti.

Questo è quello che sta accadendo al Partito democratico, che è uscito parecchio ammaccato sia dalle elezioni politiche generali che dalle elezioni regionali siciliane.

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Infatti:

Gli “incazzati” chiedono a gran voce di sbarazzare il campo dal gruppo dirigente che ha condiviso le scelte di Letta, anche di chi, pur non condividendole, non ha fatto nulla per contrastarle, non ha dato battaglia, per quieto vivere o forse per garantirsi il posto al sole.

I saggi, o presunti tali, per apparire più responsabili, consigliano di non attribuire la sconfitta solo al segretario e soprattutto di non trasformarla in una resa dei conti tra i dirigenti.

I lungimiranti chiedono di chiamare a raccolta intellettuali, sindacalisti, saggi, politici (possibilmente stranieri), per farsi confezionare una nuova carta dei valori e una ricetta vincente.

Gli irriducibili sostengono che il PD non ha perso perché rispetto al 2018 la percentuale di voti è cresciuta dello 0,0004 per cento, dimenticandosi, però, di aggiungere che in valori assoluti il loro partito ha lasciato per strada alcune centinaia di migliaia di voti.

I sognatori, sia quelli che apprezzano l’operato e le doti amministrative di Bonaccini e le capacità dialettiche della sua vice alla Regione Sclhein, invocano la loro discesa in campo per la guida del partito.

I supporter della coppia Renzi-Calenda e di Giuseppe Conte chiedono di spostare l’asse politico verso il tandem conservatore o verso sinistra, a seconda naturalmente delle simpatie dei proponenti.

Gli innovatori chiedono di cambiare nome e simbolo al Partito (chiamandolo semplicemente democratici), come se cambiando l’etichetta del contenitore cambi e migliori automaticamente anche il contenuto.

Rosy Bindi, Massimo Cacciari e Tommaso Montanari invocano lo scioglimento.

Massimo D’Alema mette sotto processo Letta colpevole “di aver pensato che la fine di Draghi provocasse un’ondata popolare nel Paese, travolgesse Conte e portasse il PD, la forza più leale a Draghi, a essere il primo partito “.

Veltroni dice no allo scioglimento e chiede di ritrovare l’identità.

Naturalmente in tutte queste proposte, o ricette che dir si voglia, c’è un goccio di verità, ma non c’è, a mio giudizio, la soluzione.

Che fare dunque?

A mio giudizio il PD per prima cosa deve cercare di capire: perché nelle fabbriche lo votano solo il 13,4 per cento degli operai? Perché viene scelto solo dal 16 per cento dei lavoratori autonomi? Perché viene votato solo dal 12 per cento dei disoccupati e dal 16,7 per cento dei giovani?

Seconda cosa deve chiedersi, se vuole trovare il bandolo della matassa, perché viene percepito come il partito dell’establishment, lontano dagli interessi della gente, soprattutto di chi paga il prezzo più alto alla crisi.

Terza cosa deve decidere se è un partito di sinistra. E se lo è deve scegliere di chiamarsi socialista – come si chiamano i partiti di sinistra in Spagna, in Portogallo, in Germania, in Inghilterra. Lo stesso Melenchòn in Francia si dichiara socialista.

Dico questo perché un partito è tale se ha una cultura, o anche un’ideologia che alimenti delle certezze negli iscritti e nei militanti. Inoltre deve avere un’identità chiara e definita, deve presentare proposte concrete per gli interessi che vuole rappresentare, e volontà di costruire azioni di lotta per affermarle.

In definitiva se questo partito vuole avere un futuro non deve avere paura di chiamarsi socialista e deve avere il coraggio di mettersi in sintonia:

  • con chi vive nell’incertezza e nella precarietà;
  • con chi vive di lavoro occasionale o nero;
  • con chi ogni giorno deve inventarsi come mettere insieme il necessario per arrivare a fine giornata;
  • con chi non vota e considera partiti e istituzioni avversari;
  • con i giovani che per costruirsi un futuro non sanno a che Santo votarsi;
  • con gli artigiani, gli esercenti, gli agricoltori, la piccola impresa che non riescono più a stare in piedi, a causa di una burocrazia spesso ottusa, di un sistema fiscale costoso e oppressivo, oltre che dal caro bollette e dalla crescita dei prezzi delle materie prime;
  • con chi vuol far finire la guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina e tutte le 49 guerre che ci sono nel mondo.

Insomma, se vuole risorgere deve mettersi in sintonia con il paese reale, non con i salotti e con i circoli finanziari.

In sostanza per risorgere il PD deve fare una rivoluzione copernicana, un congresso vero, possibilmente per tesi. Un congresso che cambi il suo modello organizzativo, le regole per evitare che chi decide di iscriversi al Partito non aderisce automaticamente a una corrente, per suscitare il protagonismo degli iscritti che debbono essere chiamati, oltre che per scegliere la linea politica anche i dirigenti che debbono portarla avanti.

È vero che il risultato elettorale premia solo Giorgia Meloni e il suo partito, visto che:

  • la Lega perde 25 punti rispetto ai sondaggi del 2019;
  • che i 5/Stelle perdono 17 punti rispetto al voto del 2018;
  • che Forza Italia continua a perdere voti, che Renzi e Calenda non arrivano neppure all’8 per cento,
  • che i partiti della sinistra estrema o antagonista che dir si voglia e i no vax non raggiungono il quorum, che Sinistra italiana, Verdi e Bonino sono sotto il risultato atteso.

Ma è vero anche che il Partito democratico con il suo striminzito 19 per cento non ha vinto. Ha subito una sconfitta cocente, non solo perché ha vinto la destra sociale, ma anche perché è stato spazzato via il cosiddetto campo largo e perché in valori assoluti perde rispetto al 2018 800 mila voti, pur avendo dentro Articolo Uno e i socialisti.

Dire, come ha detto l’onorevole Enrico Letta ieri nella direzione del suo partito, che il PD è il primo partito di opposizione, che la destra non è maggioranza nel Paese, significa descrivere solo la realtà.

Temo però che questo non sia sufficiente. Così come non lo è ribadire semplicemente la linea portata avanti in campagna elettorale, autoassolversi (come ha fatto l’attuale segretario), annunciare che il partito non si scioglierà e non cambiare nome, che in futuro non parteciperà a nessun’altro governo di unità nazionale e che si toglierà il doppiopetto e farà un’opposizione dura.

Così come non penso sia sufficiente accontentarsi di dare una riverniciata al gruppo dirigente, magari colorandolo con un pò di rosa e un pò di verde in più.

Questa linea, approvata quasi all’unanimità dalla direzione del PD, se non sarà modificata e arricchita di nuovi contenuti non credo che gli consentirà di recuperare i 7 milioni di voti persi dal 2008 al 2022.

Forse gli potrà consentire di tenersi stretto solo il 19 per cento ottenuto alle ultime elezioni. Ma anche su questo ho i miei dubbi.

Salvatore Bonura

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