Uno studio guidato da ricercatori dell’Università di Bologna ha mostrato per la prima volta il ruolo per lo sviluppo della malattia di un recettore di membrana chiamato AKL: una proteina per la quale sono già disponibili farmaci inibitori.
C’è un nuovo possibile target terapeutico per la lotta al tumore del colon-retto. Una ricerca internazionale guidata da studiosi dell’Università di Bologna e pubblicata sul “Journal of Experimental & Clinical Cancer Research” ha mostrato per la prima volta il ruolo centrale per lo sviluppo della malattia di un recettore di membrana chiamato AKL: una proteina già nota per avere un ruolo oncogenico nel tumore al polmone.
“I risultati ottenuti da questo studio aprono la strada per la prima volta all’applicazione clinica di un nuovo possibile target terapeutico per il cancro del colon-retto”, conferma Mattia Lauriola, professoressa al Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna che ha coordinato lo studio. “La portata di questa scoperta è poi resa ancora più significativa dal fatto che già oggi abbiamo a disposizione inibitori molto efficaci del recettore ALK”.
Il tumore del colon-retto è una delle neoplasie più frequenti: rappresenta il 10 per cento di tutti i tumori diagnosticati nel mondo, ed è terzo per incidenza dopo il cancro del seno femminile e del polmone. In Italia, solo nel 2020 ne sono stati registrati quasi 50 mila nuovi casi.
Negli ultimi anni, la comunità scientifica è riuscita ad indentificare e classificare quattro diversi sottogruppi della malattia, basati su altrettanti sottotipi molecolari (noti come CMS – Consensus Molecular Subtypes). La scoperta dei ricercatori dell’Alma Mater si applica ad uno di questi sottogruppi e riguarda la chinasi del linfoma anaplastico (ALK – Anaplastic Lymphoma Kinase): una proteina espressa nel sistema nervoso centrale che ne regola la proliferazione, il differenziamento e la sopravvivenza. ALK è nota per avere un ruolo nello sviluppo di diversi tipi di tumore, tra cui quello ai polmoni e il neuroblastoma: la sua espressione diminuisce dopo la nascita, ed è poco presente negli adulti, rendendola quindi un target terapeutico ideale.
Fino ad oggi, il ruolo di questo recettore di membrana era però poco studiato in relazione al tumore del colon-retto. Questa nuova ricerca ha ora mostrato che la sua espressione è in effetti un elemento determinante per la sopravvivenza dei pazienti di uno dei quattro sottotipi della malattia, quello noto come CMS1. In particolare, pazienti che presentano alti livelli di ALK nel tumore tendono ad avere una sopravvivenza ridotta.
“A partire da questi risultati, abbiamo investigato, con analisi in vitro e in vivo, i possibili benefici di terapie che inibiscono AKL, rilevando che in tutti i casi veniva rallentata la crescita della malattia per il sottotipo CMS1, mentre non si registravano effetti negli altri sottotipi”, spiega Lauriola. “Poiché sono già disponibili diversi farmaci inibitori di AKL, questa scoperta potrebbe portare allo sviluppo di terapie personalizzate, consentendo un passaggio rapido dalla sperimentazione alla fase clinica, con evidenti benefici per pazienti che oggi hanno ancora troppo poche opportunità di cura”.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Journal of Experimental & Clinical Cancer Research con il titolo “The autocrine loop of ALK receptor and ALKAL2 ligand is an actionable target in consensus molecular subtype 1 colon cancer”. I risultati sono stati ottenuti dopo quattro anni di intenso lavoro che hanno visto la collaborazione di una rete internazionale coordinata da Mattia Lauriola, professoressa al Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna, e dalle ricercatrici Martina Mazzeschi e Michela Sgarzi (prime autrici dello studio), iscritte al terzo anno di dottorato in Oncologia, Ematologia e Patologia.
Per l’Alma Mater hanno partecipato anche: Donatella Romanello, Valerio Gelfo, Alessandra Morselli, Noemi Laprovitera, Cinzia Girone, Manuela Ferracin, Andrea Ardizzoni, Michelangelo Fiorentino e Gabriele D’Uva. Hanno collaborato inoltre patologi dell’Ospedale Maggiore di Bologna, oncologi dell’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola, ricercatori del CNR, bioinformatici della Semmelweis University di Budapest (Ungheria) e studiosi dell’Istituto di Biomedicine dell’Università of Gothenburg (Svezia).
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