La frequenza dei salti di specie dei patogeni potrebbe aiutare a capire l’origine di SARS-CoV-2 e valutare la probabilità di future devastanti pandemie. Ma si tratta di studi affetti da troppe incertezze mentre quel che è certo è che l’eccessiva pressione antropica sugli ecosistemi naturali aumenta enormemente il rischio
Una delle principali domande che le persone si pongono da un anno e mezzo è perché SARS-CoV-2 è diventato il disastro mondiale che conosciamo. Che cosa rende questo virus così diverso da tutti gli altri con cui conviviamo, e perché nonostante la scienza sia oggi molto più all’avanguardia rispetto agli scorsi decenni, non abbiamo mai vissuto una pandemia globale simile a questa.
A quasi due anni da quando presumibilmente il virus ha iniziato a circolare fra gli esseri umani, ancora non abbiamo risposte certe sulla sua origine, e il motivo è semplice: il mondo vivente, specie su scala globale, è ancora troppo complicato rispetto agli strumenti in nostro possesso per misurarlo.
Ce lo spiega bene Stefania Leopardi, veterinaria, ricercatrice all’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie, con cui avevamo parlato di questo argomento nella primavera del 2020, quando iniziavamo a prendere coscienza della portata di COVID-19.
Di fronte a un’epidemia di influenza aviaria, per esempio nei polli di un allevamento, è possibile sequenziare il virus da tutti gli esemplari e capire da che azienda proviene il cluster e il percorso del patogeno tra azienda e azienda, ottenendo informazioni fondamentali che possono aiutare a controllare la catena di trasmissione. “Nell’uomo e negli animali selvatici tutto questo è impossibile”, spiega Leopardi.
“Di fatto, oggi non sappiamo nulla della trasmissione iniziale di SARS-CoV-2: abbiamo solo conoscenza della sua evoluzione, cioè su come si è trasformato negli ultimi due anni. Ma avere traccia dell’evoluzione non dice quasi nulla su come si è trasmesso, e da che specie proviene originariamente. La filogenesi che permette di correlare i virus fra loro è un modello statistico creato sui dati che immettiamo noi, ossia le poche sequenze che abbiamo a disposizione, e, pertanto, è correlata con un fattore di dubbio, che diventa elevato quando si parla delle sequenze che mancano dei virus che non abbiamo ancora trovato, come il progenitore diretto di SARS-CoV-2. Per avere una risposta sullo storico della trasmissione dovremmo avere tutte le sequenze, cioè poter misurare tutti i ‘polli dell’allevamento’, cosa che non è possibile nel caso appunto di animali selvatici.”
Stiamo imparando a nostre spese che le varianti arrivano e se ne vanno velocemente. Per questo, se anche il progenitore di SARS fosse stato in qualche specie animale in passato, ipoteticamente come carta singola nel mazzo delle varianti così dette “SARS-like” che sono mantenute dai pipistrelli rinolofi, trovarlo oggi risulta un’utopia.
Siamo portati a perdere di vista che la scienza biomedica, pur trovandosi anni luce avanti rispetto a trent’anni fa, non è ancora in grado di descrivere tutta la complessità del mondo vivente. E per spiegare qualcosa è necessario prima descriverlo, e poi analizzarlo, un po’ come il noto gioco per bambini: vediamo solo alcuni puntini, ma non sappiamo come ricostruire l’immagine.
L’unica strada percorribile è sequenziare quanti più campioni raccolti prima di COVID-19, e conservati a basse temperature per altre ragioni, e ricercare in questi tamponi traccia del virus, come si è fatto e si sta facendo un po’ in tutto il mondo, anche in Italia. È di luglio 2021 la notizia più recente in merito: test effettuati da due laboratori di ricerca, il VisMedery di Siena e un centro dell’Università di Rotterdam affiliato all’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), avrebbero rilevato tracce di SARS-CoV-2 nel sangue di alcuni vecchi pazienti dell’ l’Istituto nazionale tumori (INT) di Milano già nell’autunno 2019. Dati come questi possono aiutarci a unire altri puntini sull’evoluzione del virus, a capire come si è evoluto nel passato e quindi, piano piano, a delineare la traccia della sua trasmissione.
Modelli vs Realtà
Questo è il motivo per cui alcuni articoli scientifici anche recenti che stimano il numero di spillover (cioè di salti di specie dei patogeni) devono essere presi con le pinze. In primo luogo perché si tratta quasi sempre di modellistica, non di analisi di dati reali raccolti in situazioni reali.
È il caso per esempio di un articolo ripreso in tutto il mondo, secondo il quale, a seconda del tempo per cui siamo in contatto con i pipistrelli, ogni anno ci potrebbero essere 400.000 persone infettate da coronavirus legati alla SARS. E invece non è così. Un numero inimmaginabile che ci fa sentire senza dubbio dei miracolati per non aver vissuto alcuna vera pandemia negli ultimi cent’anni. Solo due nuovi coronavirus si sono diffusi a livello globale negli ultimi due decenni: SARS-CoV, che ha causato un’epidemia di sindrome respiratoria acuta grave (SARS) nel 2003, e SARS-CoV-2, il virus che causa COVID-19. L’articolo conclude che se non è così, non è perché gli spillover di per sé siano pochi. Lo studio in realtà è ancora in preprint, cioè non è stato sottoposto ad alcun processo di revisione da parte della comunità scientifica, ma è firmato da alcuni dei più noti scienziati a livello mondiale che studiano gli spillover.
“Ci sono diversi problemi in modelli come questo – spiega Leopardi – soprattutto quando non sono validati da dati sul campo. Questo studio in particolare, poi, presenta un’analisi di rischio piuttosto basilare costruita sulla moltiplicazione fra diversi fattori di rischio. In poche parole, è un metodo semplicistico per un processo complicatissimo, che considera molte variabili che devono presentarsi contemporaneamente: quanta gente c’è al mondo, il livello di contatto fra popolazioni e i pipistrelli, quanto si traduce in esposizione al virus e quanto durano gli anticorpi, per ottenere il numero di esposizioni all’anno.”
“La criticità più forte – prosegue Leopardi – è che questi parametri sono calcolati sulla base della letteratura presente, che è molto scarsa. Per esempio, la probabilità di sviluppare anticorpi quando si viene a stretto contatto con i pipistrelli, parametro spesso usato come indice di esposizione al virus in analisi, è stata calcolata considerando non solo i virus SARS-like, ma anche altri virus, come Hendra e Nipah, che presentano un’ecologia completamente diversa.”
In particolare, questi virus sono tra i pochi a essere trasmessi direttamente dal pipistrello agli esseri umani, causando epidemie ricorrenti soprattutto in India e Bangladesh. Questo non è invece assolutamente vero per i virus SARS, per i quali non è mai stata dimostrata la trasmissione diretta se non tra persona e persona. “Non a caso lo stesso studio calcola la sensibilità del modello per capire la variabile che più influenza il risultato, ed è risultata essere questa.”
Per lo stesso motivo, è difficile condividere perché lo studio abbia contato come unica modalità di spillover la trasmissione diretta pipistrello-essere umano, che è la possibilità meno supportata dalle evidenze scientifiche che abbiamo oggi. “Attualmente nessun coronavirus umano è stato trovato nei pipistrelli e nessuno ha alcun dato epidemiologico raccolto sul campo che ci dica che un coronavirus sia mai stato trasmesso da pipistrello a essere umano. Di contro, sappiamo che alcuni coronavirus come quello della MERS si sono prima stabiliti in un’altra specie animale, in quel caso il dromedario, prima di amplificarsi così tanto e modificarsi a tal punto da risultare trasmissibili all’uomo, creando poi l’epidemia che dal 2012 ancora affligge l’Arabia Saudita. Ma soprattutto potremmo non trovare mai questa traccia.”
Per quanto riguarda SARS-CoV-2, a un certo punto si è iniziato a supporre che l’ospite intermedio per il salto di specie del virus fosse stato il pangolino. “Allo stato delle cose il pangolino sembra essere più una vittima che un carnefice, come SARS-CoV-2 anche la sua variante sembra essere una delle tante carte del mazzo di varianti mantenute dai pipistrelli rinolofi. Questa scoperta però è un’evidenza importante di quanto poco conosciamo dell’ecologia di questi virus per poter dire con certezza da dove abbia fatto il salto il virus.”
Virus naturali vs Virus artificiali
Un’altra domanda che i cittadini si pongono è se un esperto sia in grado di capire se un virus è naturale o artificiale. “Nei primi anni duemila, per esempio, un piccolo cluster di SARS si era verificato dopo un incidente di laboratorio, e gli esperti lo hanno saputo subito perché il virus era identico a quello isolato diversi anni prima, cosa rarissima in natura dato che i virus evolvono.”
Quando il virus risponde ai parametri evolutivi e non presenta qualcosa di molto diverso, rientra nelle aspettative. “Da scienziati non potremmo mai dire con certezza assoluta che un virus non è artificiale, ma possiamo dire se è un virus che si comporta come ci aspettiamo oppure no. E in questo caso SARS-CoV-2 si comporta come ci aspettiamo si comporti un virus non artificiale.”
Quindi perché COVID-19 è diventata una pandemia?
I motivi sono fondamentalmente quattro, che si sono verificati contemporaneamente. Il primo è che SARS-CoV-2 ha una caratteristica strutturale più pericolosa di altri virus: si può essere contagiati senza sentirsi ammalati, e di conseguenza la probabilità di infettare altre persone è molto alta. Anche Ebola è estremamente infettante, ma solo quando una persona ha già sviluppato la malattia che, essendo estremamente debilitante, non permette una vita normale e riduce la possibilità di trasmissione alle persone.
Il secondo aspetto è che il mondo di oggi è completamente diverso rispetto al 2002. In vent’anni abbiamo avuto una crescita esponenziale della connettività.
Infine, non è vero che la pandemia non sia stata prevista. Si sapeva che la probabilità di un evento simile non era remota, il problema è che si tratta di eventi stocastici e non possiamo predire dove e come si verificheranno. E in ogni caso non abbiamo gli strumenti per agire subito in modo coordinato così da soffocare il primo focolaio. “Il fatto è che è difficile decidere di investire ingenti somme di denaro per la prevenzione di qualcosa che non si sa se e quando si manifesterà. Probabilmente COVID-19 ci ha insegnato che conviene comunque farlo”, spiega Leopardi.
Di nuovo: dobbiamo tenere presente che la scienza non è ancora in grado di descrivere tutta la complessità del mondo vivente. La natura non è un laboratorio e non legge i nostri modelli né sottostà alle nostre assunzioni: per questo non sempre tutte le ipotesi vengono confermate.
Il vero responsabile della pandemia
“Sebbene le stime modellistiche del rischio lascino il tempo che trovano, è vero che non viviamo in un mondo sterile, e che ogni giorno siamo esposti a moltissimi virus che non ci daranno mai alcun problema. Questo perché gli animali selvatici sono pieni di virus ed è un equilibrio delicato che l’uomo deve sforzarsi di mantenere tale”, recuperando la distanza dalla fauna selvatica che stiamo drasticamente perdendo negli ultimi decenni. “Le popolazioni animali selvatiche sono in forte stress. Le foreste sono sempre di meno, e di conseguenza molti individui sono costretti a condividere lo stesso albero, infettandosi con più facilità.” E mentre noi li andiamo a cercare per cacciarli, per studiarli, osservarli, fotografarli, loro si avvicinano alle nostre case in mancanza di spazi propri.
“Ci aspettiamo risposte certe dalla scienza sull’origine della pandemia, per capire chi è stato il primo Caino, e stiamo facendo fatica ad accettare che forse non è possibile trovare dati oggettivi”, conclude. “E intanto perdiamo di vista che una risposta non meno significativa, già ce l’abbiamo.”