Ad influenzare l’elevata circolazione di SARS-CoV-2 tra gli anziani durante la prima ondata non sarebbe stata la forza dei legami tra generazioni dentro le famiglie, ma piuttosto il maggior numero di incontri quotidiani, con persone di qualsiasi età, rispetto ad altri paesi europei come la Germania e il Regno Unito.
In Italia, durante la prima ondata dell’epidemia di COVID-19, la velocità di diffusione del coronavirus SARS-CoV-2, così come il livello di letalità della malattia, sono stati più elevati rispetto ad altri paesi europei. Molti studiosi hanno cercato di spiegare questo fenomeno facendo notare che nella società italiana ci sono legami familiari molto stretti, con nonni, genitori, figli e nipoti che spesso vivono insieme o comunque si vedono molto di frequente: una caratteristica che avrebbe contribuito alla rapida diffusione del virus tra gli anziani.
Una nuova ricerca pubblicata sulla rivista PLOS ONE e realizzata da studiosi delle università di Trento, della Sorbona e di Bologna suggerisce però ora una diversa spiegazione: ad accelerare la diffusione del COVID-19 in Italia non sarebbero stati i contatti intergenerazionali, ma piuttosto il fatto che, in media, gli italiani hanno quotidianamente più contatti faccia a faccia con altre persone, di qualsiasi età, rispetto alle popolazioni di altri paesi come la Germania o il Regno Unito.
“La sola struttura per età della popolazione non è sufficiente a spiegare le differenze osservate tra il caso italiano e altri paesi europei”, spiega Marco Albertini, professore al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio. “I risultati del nostro studio mostrano però che più dei legami tra generazioni dentro le famiglie italiane sono le caratteristiche specifiche delle reti sociali ad aver avuto un ruolo importante nell’accrescere la velocità di diffusione del virus”.
Per analizzare il problema e individuare i fattori potenzialmente più rilevanti nella diffusione del coronavirus, gli studiosi hanno utilizzato una serie metodi di simulazione in combinazione con dati reali sulle caratteristiche dei contatti sociali di persona. L’analisi ha preso in considerazione in particolare le caratteristiche delle reti sociali in tre paesi: Italia, Germania e Regno Unito.
“Abbiamo esaminato nello specifico il ruolo di tre caratteristiche delle reti sociali”, spiega Lucas Sage, dottorando alle università di Trento e della Sorbona, primo autore dello studio. “La degree distribution, ovvero quanti contatti faccia a faccia hanno mediamente le persone nei tre diversi paesi; age-mixing, ovvero le differenze di età delle persone che si incontrano; clustering, ovvero la tendenza delle persone a condividere gli stessi contatti nelle reti sociali”.
Mettendo a confronto questi diversi aspetti con i dati di Italia, Germania e Regno Unito, i risultati delle simulazioni hanno mostrato che le differenze di età tra i contatti sociali hanno un impatto molto basso, mentre è invece il numero complessivo di contatti faccia a faccia tra le persone a determinare una maggiore diffusione del contagio.
Riportati al caso italiano, questi risultati indicano che non sono le caratteristiche specifiche dei legami familiari, ma piuttosto più in generale l’elevato livello di socialità della popolazione a spiegare la più elevata velocità di circolazione del coronavirus.
“Una conseguenza importante di questi risultati è che misure di contenimento del contagio pensate per diminuire i contatti tra giovani e anziani non avrebbero particolare efficacia”, dice in conclusione Stefani Scherer, professoressa all’Università di Trento, tra gli autori dello studio. “Più che i contatti verticali tra gruppi di età, è infatti il numero di contatti faccia a faccia nella popolazione generale che gioca un ruolo nella diffusione del virus tra gli anziani”.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PLOS ONE con il titolo “The spreading of SASR-CoV-2: Interage contacts and networks degree distribution”. Gli autori sono Lucas Sage del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento e Sorbonne Université (Francia), Stefani Scherer del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento, e Marco Albertini, professore al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna.