Ecco che cosa sappiamo sulla trombosi da vaccino contro il COVID-19

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Le ricerche sulla reazione trombotica ad alcuni vaccini contro COVID-19, molto rara ma preoccupante, hanno permesso di formulare ipotesi, ma l’identificazione dell’esatto meccanismo che la scatena è ostacolata proprio dal numero assai esiguo di persone colpite, che non ha consentito un vasto studio sistematico

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Quando arrivò la seconda persona con coaguli di sangue fuori dalla norma, Phillip Nicholson capì che c’era qualcosa che non andava. Nei giovani, i trombi non sono comuni ed è ancora più raro vedere una combinazione di coaguli di sangue e livelli pericolosamente bassi di piastrine, frammenti cellulari che contribuiscono alla loro formazione.

Eppure, a marzo, nel corso di una settimana, due individui con questa coppia di sintomi si erano presentati al Queen Elizabeth Hospital di Birmingham, nel Regno Unito, dove Nicholson lavora come specialista in ematologia. Entrambi erano stati da poco vaccinati con il vaccino Vaxeviria (precedentemente noto come COVID-19 Vaccine AstraZeneca).

Nicholson era stato di turno all’ospedale per tutto il fine settimana, e non vedeva l’ora che arrivasse lunedì per riposarsi. Invece, si trovò a correre di qua e di là per ottenere consensi alla raccolta di campioni da studiare in laboratorio. Quando riuscì ad arrivare al letto del secondo paziente, ne era stato ammesso un terzo.

Quella settimana, Nicholson fu tra i primi a testimoniare quella che oggi i ricercatori chiamano trombocitopenia trombotica immunitaria indotta da vaccino (o VITT, da vaccine-induced immune thrombotic thrombocytopenia), malattia misteriosa e potenzialmente letale che colpisce un piccolissimo numero di individui che hanno ricevuto i vaccini anti COVID-19 Oxford-AstraZeneca o Johnson & Johnson. Oggi si stima che la VITT abbia colpito circa un individuo su 50.000 al di sotto dei cinquant’anni, tra quelli vaccinati con Oxford-AstraZeneca. Questa osservazione, e altre simili in nazioni diverse, hanno portato alcuni governi prima a rimandare e poi a ridurre l’impiego di questi vaccini.

Nonostante il grande impegno di ricercatori come Nicholson, ancora non conosciamo il meccanismo che lega i vaccini alla VITT. Stabilirlo potrebbe rivelare modi per prevenire e curare la malattia, e migliorare la progettazione di futuri vaccini. Negli ultimi mesi, i ricercatori hanno raccolto indizi e sviluppato una serie di ipotesi.

Analizzare queste possibilità è un lavoro improbo. “Puoi anche avere delle ipotesi, ma come riuscire a trovare quella che è all’origine di un evento che magari ha colpito una persona su 100.000?”, si chiede John Kelton, ematologo alla McMaster University di Hamilton, in Canada. “È molto, molto difficile.”

Nozioni sui coaguli
L’inusuale costellazione di sintomi risultò immediatamente familiare ad alcuni ematologi, in particolare a quelli con esperienza nella cura di pazienti con una rara reazione avversa al farmaco anticoagulante eparina. Questa sindrome, chiamata trombocitopenia indotta da eparina (o HIT), è anch’essa caratterizzata da un basso livello di piastrine e, a volte, dalla presenza di trombi.

Questa trombocitopenia è causata dal fatto che l’eparina, una molecola carica negativamente, si lega a una proteina carica positivamente chiamata fattore piastrinico 4 (o PF4), prodotta dalle piastrine per facilitare i coaguli. In alcune persone, il sistema immunitario considera questo complesso un estraneo e sviluppa anticorpi per combatterlo.

Gli anticorpi possono anche legarsi alle piastrine e attivarle, preparandole ad aggregarsi e favorire i trombi. Questi ultimi possono causare l’ostruzione di importanti vasi sanguigni e la malattia può essere fatale, anche se alcune cure migliorano le possibilità di sopravvivenza.

In tutto il mondo, sono pochi i laboratori che studiano la trombocitopenia da eparina; quelli che se ne occupano si diedero subito da fare per ottenere campioni dei pochi individui a cui era stata diagnosticata la VITT. Quando i ricercatori analizzarono i campioni, fu chiaro che i destinatari dei vaccini che avevano avuto questa misteriosa reazione con i coaguli stavano anche producendo anticorpi contro i propri PF4 (si vedano gli articoli a prima firma rispettivamente Nina H. SchultzAndreas Greinacher e Marie Scully).

Restava però da capire che cosa avesse innescato questi anticorpi. Kelton, che studia la trombocitopenia da eparina da decenni, dovette aspettare per ottenere preziosi esemplari da individui colpiti dalla VITT, dopodiché il suo gruppo dovette barcamenarsi tra campioni di qualità variabile. Alcuni erano contaminati dalle cure ricevute dai pazienti: “Molti campioni non erano esattamente immacolati”, commenta il ricercatore. “Queste persone erano terribilmente malate, e i medici le avevano sommerse di farmaci. Erano piene zeppe di sostanze chimiche di ogni tipo.” E circa i due terzi dei campioni ricevuti dal suo gruppo erano del tutto privi di anticorpi contro PF4, segno del fatto che, secondo Kelton, i pazienti non erano stati colpiti da VITT, ma avevano invece sviluppato un problema di coagulazione probabilmente non legato alla vaccinazione.

Alla fine, il gruppo di Kelton riuscì a ottenere cinque campioni di soggetti che non erano ancora stati curati per la VITT. Quando i ricercatori caratterizzarono gli anticorpi in questi campioni, scoprirono che alcuni si stavano legando ai PF4 nello stesso sito usato dall’eparina, e che erano anche in grado di attivare le piastrine.  Questo risultato suggeriva che il meccanismo dietro la sindrome collegata ai vaccini fosse simile a quello della trombocitopenia da eparina, con la differenza che sembrava che a innescare il tutto fosse il vaccino, anziché l’eparina.

Ingredienti sospetti
Qualcosa, nel vaccino o nella risposta del corpo, doveva legarsi ai PF4, ma che cosa? La VITT è stata collegata a due vaccini anti-COVID-19: entrambi usano adenovirus non più in grado di replicarsi come “vettore” per trasportare un gene che codifica per una proteina del coronavirus, detta spike, dentro le cellule umane. Una volta a destinazione, il gene è espresso e la proteina viene prodotta. Il sistema immunitario rileva la presenza della proteina spike e genera anticorpi contro di essa che sono fondamentali per proteggerci dall’infezione.

Alcuni ricercatori hanno suggerito che nei vaccini siano presenti impurità risultanti da residui dei processi di fabbricazione – come frammenti di DNA che fluttuano nella soluzione, o proteine presenti nel brodo di coltura del virus – che interagiscono con i PF4 per generare i grumi che diventano bersaglio degli anticorpi.

Altri pensano che il colpevole possa essere lo stesso adenovirus. Lavori precedenti avevano mostrato che nei topi gli adenovirus possono legarsi alle piastrine e causarne la riduzione. Si può pensare che anche questi topi potrebbero aver sviluppato dei trombi se fossero stati seguiti più a lungo, commenta Maha Othman, che studia la coagulazione del sangue alla Queen University di Kingston, in Canada, ed è autrice principale dello studio.

Prima della pandemia di COVID-19, i vaccini a base di adenovirus erano stati sviluppati contro infezioni come HIV ed Ebola, ma non erano ancora stati usati in grandi popolazioni. Non sono stati riportati casi di una condizione analoga alla VITT prodotta da questi vaccini, che tuttavia sono stati testati su un numero di persone nemmeno lontanamente comparabile a quello dei destinatari del vaccino anti-COVID-19 Oxford-AstraZeneca.

L’ematologo Mitesh Borad della Mayo Clinic a Phoenix, in Arizona, e colleghi hanno analizzato la struttura dell’adenovirus di scimpanzé usato nel vaccino Oxford-AstraZeneca, determinando che ha una forte carica negativa. Simulazioni molecolari suggeriscono che questa carica, combinata con alcuni aspetti della forma del virus, potrebbe permettergli di legarsi alla proteina PF4, carica positivamente. Se così fosse, secondo Borad potrebbe poi innescarsi una reazione a catena simile a quella che raramente avviene quando è in gioco l’eparina, anche se resta da vedere se ciò succede davvero.

Anche se la colpa fosse dell’adenovirus, Borad non esorterebbe chi sviluppa i vaccini a smettere di usare gli adenovirus. Secondo l’ematologo, si potrebbero progettare adenovirus con ridotta carica negativa, e alcuni hanno carica negativa inferiore ad altri; l’adenovirus Ad26 usato nel vaccino anti-COVID-19 Johnson & Johnson non ha una carica così elevata come il virus dello scimpanzé, cosa che potrebbe spiegare perché sembra che la VITT sia meno comune in chi riceve questo vaccino. E finora non è stato riportato alcun legame con la VITT per il vaccino anti-COVID-19 Sputnik V, che usa sia Ad26 sia un altro adenovirus chiamato Ad5 che, aggiunge Borad, ha una carica negativa ancora più bassa.

E poi c’è la proteina spike. Un gruppo di ricercatori si è chiesto se gli anticorpi che si legano ai PF4 in individui colpiti dalla VITT siano un sottoprodotto involontario della risposta immunitaria del corpo alla spike. Hanno però scoperto che gli anticorpi contro i PF4 non possono legarsi alla proteina virale, cosa che suggerisce non facciano parte della risposta immunitaria.

Ma Rolf Marschalek, ricercatore oncologo alla Goethe-Universität di Francoforte, in Germania, ha mostrato insieme ai colleghi che nelle cellule umane frammenti di RNA che codificano per la proteina spike possono essere tagliati e riattaccati insieme in modi diversi; alcune di queste forme, dette varianti di splicing, possono generare proteine spike che entrano nel sangue e poi si legano alla superficie di cellule che ricoprono i vasi sanguigni. Qui causano una risposta infiammatoria osservata anche in alcune infezioni da SARS-CoV-2, che in persone gravemente colpite può portare alla formazione di coaguli.

Inoltre, secondo Marschalek, il tasso inferiore di trombi legati al vaccino Johnson & Johnson rispetto a Oxford-AstraZeneca potrebbe essere dovuto al fatto che la versione della proteina spike generata dal primo è stata progettata per rimuovere i siti che permettono di processare l’RNA in varianti di splicing.

Marschalek pensa che, se questa idea sarà confermata, il vaccino Oxford-AstraZeneca e altri vaccini a vettore virale potrebbero essere resi più sicuri progettando in modo simile le loro versioni della proteina spike.

Secondo alcune fonti, i gruppi dietro i vaccini Oxford-AstraZeneca e Johnson & Johnson sono al lavoro per sviluppare vettori adenovirali più sicuri, e Marschalek sarebbe sorpreso se le aziende farmaceutiche abbandonassero del tutto i vettori adenovirali. Altri sono d’accordo con lui. “Penso che siano molto diffusi, e che lo resteranno”, commenta Othman, citando la facilità con cui i vaccini possono essere prodotti e manipolati, e l’abbondanza di dati che suggeriscono che per la maggior parte delle persone i vaccini sono sicuri. Anziché abbandonarli, conclude, “dovremmo studiare meglio le risposte immunitarie che inducono”.

Un possibile fattore che influisce sulla sicurezza dei vaccini adenovirali è come sono somministrati. I vaccini anti-COVID-19 sono somministrati con iniezioni nel tessuto muscolare, ma se per caso l’ago si inserisce in una vena, il vaccino può entrare direttamente in circolo nel sangue. Il gruppo di Leo Nicolai, cardiologo alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera, in Germania, ha scoperto in uno studio su topi che le piastrine coagulano insieme all’adenovirus e si attivano quando il vaccino Oxford-AstraZeneca è iniettato nei vasi sanguigni, ma non quando è iniettato nel tessuto muscolare.

Secondo Nicolai, è possibile che in rare occasioni un vaccino sia inavvertitamente iniettato in una vena, come è successo nei primi studi sui topi che hanno scoperto come l’adenovirus può legarsi alle piastrine. Se le cose stessero così, molti casi di VITT potrebbero essere evitati chiedendo al vaccinatore di prelevare preliminarmente una piccola quantità di fluido dal punto dell’iniezione con la siringa per verificare la presenza di sangue prima di spingere effettivamente il pistone per somministrare il vaccino. Questa pratica è già lo standard in alcune nazioni, e la Danimarca l’ha aggiunta alle proprie linee guida ufficiali per la somministrazione dei vaccini anti-COVID-19.

Migliorare le cure
C’è ancora bisogno di cure migliori per la VITT, che secondo uno studio britannico ha ucciso 49 dei 220 individui a cui era stata diagnosticata tra marzo e giugno 2021. Attualmente, i medici curano questa forma di trombosi con farmaci anticoagulanti diversi dall’eparina e somministrando alte dosi di anticorpi naturali provenienti da donatori di plasma. Gli anticorpi trasfusi competono con gli anticorpi anti-PF4 per legarsi alle piastrine e riducono la capacità di queste ultime di promuovere la coagulazione del sangue. “Con questi tentativi, si spera di riuscire a confondere l’organismo e nascondere gli anticorpi pericolosi con una spessa coltre di anticorpi normali”, spiega Kelton. “È un sistema davvero rozzo.”

A Birmingham, Nicolson è al lavoro per sviluppare approcci più specifici. Ha testato il siero di pazienti con VITT per capire se li si può curare convertendo farmaci sviluppati per altre malattie. In particolare, il ricercatore si sta concentrando su cure che interferiscono con una proteina sulle piastrine, per vedere se ci sono farmaci che prevengono l’attivazione delle piastrine e la catena di eventi che porta ai trombi nella VITT.

Tuttavia, anche se fossimo pronti a lanciare uno studio clinico di queste terapie, ci sarebbero poche persone su cui testarle. Da quando Nicolson ha visitato i primi casi a marzo, il Regno Unito ha cambiato le proprie politiche vaccinali e oggi consiglia il vaccino Oxford-AstraZeneca solo a persone sopra i 40 anni di età. La VITT è più frequente nelle persone più giovani, forse perché hanno una risposta immunitaria migliore.

Non è chiaro se altre nazioni potranno permettersi lo stesso lusso di restringere i vaccini Oxford-AstraZeneca alla popolazione più anziana, anche perché sono relativamente economici e ampiamente disponibili rispetto ai vaccini a mRNA. Fino a oggi, i casi di VITT sono stati riportati principalmente in Europa e negli Stati Uniti, ma i ricercatori non sanno ancora se ciò rifletta differenze regionali nella suscettibilità alla malattia, oppure se si tratti di differenze nei sistemi di segnalazione che raccolgono i dati sui potenziali effetti collaterali dei vaccini. In Thailandia, per esempio, a luglio alcuni ricercatori hanno riportato che non c’è stato alcun caso di VITT dopo la somministrazione di 1,7 milioni di dosi del vaccino Oxford-AstraZeneca,

Nicolson commenta che il numero di persone arrivate al suo ospedale con la VITT è calato drasticamente: “Non ne vediamo più, non succede quasi più.”

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