COVID-19 e i casi di infezione in persone vaccinate

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Comuni a molti vaccini, nel caso di COVID-19 i casi di infezioni post-vaccinali a confronto sono limitati e la maggior parte delle persone vaccinate che vengono infettate non ha sintomi, mentre quelle che li manifestano tendono ad avere una malattia lieve

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Ondate di notizie senza fine e social media virali mettono in guardia sul rischio di infezione in persone già vaccinate per COVID-19 [si parla in questo caso di infezioni breakthrough o infezioni post-vaccinali, NdT]. Questi messaggi lasciano l’impressione errata che le protezioni offerte dai vaccini non stiano funzionando e possono alimentare la reticenza tra i milioni di persone nel mondo che non hanno ancora fatto il vaccino. Ma queste infezioni non si verificano solo dopo la vaccinazione per COVID-19. Si verificano frequentemente dopo quelle per influenza, morbillo e molte altre malattie.

SARS-CoV-2, il virus che causa COVID-19 ha però qualcosa di speciale: più di qualsiasi altro agente patogeno, ha fornito al grande pubblico lezioni di immunologia, e termini come “infezioni post-vaccinali” e “immunità di gregge” sono diventate di dominio comune. “Sembra quasi che ci sia non solo un microscopio, ma un microscopio elettronico su ogni singolo avvenimento che riguardi i vaccini per COVID-19”, sottolinea Kawsar Talaat, professoressa associata al Dipartimento di salute internazionale della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health. Nessun vaccino è efficace al 100 per cento, nota la scienziata, e “anche se alcuni sono migliori di altri, la maggior parte di loro ha qualche infezione post-vaccinale”.

Infezione post-vaccinale significa semplicemente che una persona vaccinata è risultata positiva all’agente che causa la malattia, non che si ammalerà o trasmetterà l’infezione a qualcun altro. La maggior parte delle persone vaccinate che vengono infettate non ha sintomi, e quelle che li manifestano tendono ad avere una malattia lieve. Anche con la variante Delta di SARS-CoV-2, i vaccini mostrano una buona protezione contro la malattia sintomatica e la morte.

Il 2 agosto, i Centers for Disease Control and Prevention degli Stati Uniti hanno riferito che più di 164 milioni di persone sono state completamente vaccinate, poco meno della metà della popolazione totale. Eppure il 97 per cento di coloro che sono ricoverati per COVID-19 non sono vaccinati [in Italia, al 10 agosto il 64,3 per cento della popolazione over 12 ha completato il ciclo vaccinale; al 17 luglio, la percentuale di ricoverati non vaccinati variava tra il 90,8 per cento nella fascia di età 12-39 anni e il 43 per cento per gli over 80, mentre la percentuale di ricoveri in terapia intensiva variavano tra il 100 per cento nella fascia di età 12-39 anni e il 70 per cento per gli over 80, NdT].

I numeri sottolineano come nell’opinione pubblica la realtà a volte venga distorta. “Aneddoticamente, parlando con i miei amici e familiari e leggendo i social media, penso che la gente sia preoccupata per queste infezioni post-vaccinali più di quanto sarebbe ragionevole sulla base della loro prevalenza”, spiega Tara Smith, professoressa di epidemiologia del College of Public Health della Kent State University.

Un’altra preoccupazione che riguarda i casi di infezione post-vaccinale è la trasmissione del virus ad altri. Ma le persone infettate “tendono ad avere meno probabilità di contagiare, indipendentemente da ciò che stiamo considerando”, sostiene Smith. “Lo vediamo con virus e batteri, persino con la pertosse, una delle ragioni per cui le persone cercano di fare un ‘bozzolo’ intorno ai neonati” che non possono essere inizialmente vaccinati contro quella malattia: si vaccinano coloro che sono a contatto con il bambino, creando una sorta di barriera protettiva perché il vaccino per la pertosse non viene somministrato prima dei due mesi di età.

Ci si aspetta che i vaccini per COVID-19 riducano la trasmissione tra coloro che hanno un’infezione asintomatica, afferma Nick Grassly, professore del Dipartimento di epidemiologia delle malattie infettive all’Imperial College London. “Chi è immunizzato ha meno probabilità di essere infettato, e anche se è infetto, il suo rischio di trasmettere il virus è ridotto”, aggiunge. Una ragione è che la quantità di coronavirus, la sua carica virale, è inferiore in queste infezioni, quindi ce n’è meno da trasmettere. Come questo modello si applichi alla variante Delta non è chiaro. Uno studio dei Centers for Disease Control and Prevention degli Stati Uniti, pubblicato a fine luglio ha evidenziato conteggi virali simili tra persone vaccinate e non vaccinate. In quello studio, tuttavia, i ricercatori non hanno effettuato test per confermare le cariche virali né hanno riportato i dati sulla trasmissione da persone vaccinate, e il gruppo dei “non vaccinati” includeva persone che erano parzialmente vaccinate.

I casi di infezione post-vaccinale non si verificano perché i vaccini sono inefficaci. L’immunità può svanire nel tempo, e un vaccino potrebbe essere meno efficace per un dato patogeno. Il vaccino contro morbillo-parotite-rosolia (MMR) è un esempio: la sua protezione contro il morbillo è forte, ma l’immunità alla parotite che conferisce lo è meno, dice Talaat.

Anche il potente vaccino contro il morbillo ha una storia di infezioni post-vaccinali. Alla fine degli anni ottanta, un’epidemia di morbillo che ha coinvolto in gran parte giovani vaccinati, ha portato a un cambiamento nella politica vaccinale, che ora prevede la somministrazione di due dosi invece di una. La prima dose di MPR conferisce circa il 90 per cento di protezione per tutta la vita, dice Talaat, mentre la seconda dose copre circa la metà del restante 10 per cento. Data l’alta contagiosità del morbillo, è fondamentale ottenere la massima copertura possibile.

I vaccini antinfluenzali sono quelli maggiormente associati alle infezioni post-vaccinali. Se questi casi di influenza fossero seguiti da vicino come le infezioni di SARS-CoV-2, “emergerebbero molti più casi”, sottolinea Smith, perché “sappiamo che il vaccino antinfluenzale non è così efficace”. I casi di infezione post-vaccinale di COVID-19, spiega, non sono nulla di straordinario a confronto con quelli che si verificano con gli altri vaccini.

I vaccini per COVID-19 sembrano andare meglio di quanto fanno di solito quelli per l’influenza. Le dosi hanno neutralizzato le varianti di COVID-19 in modo abbastanza efficace finora. Grassly nota che, in effetti, COVID-19 non supera l’immunità tanto quanto i virus dell’influenza. E alcuni tipi di influenza sono semplicemente più bravi a schivare ciò che l’ingegno umano scaglia contro di loro, lasciando il campo ad alcune stagioni influenzali con vaccini assai poco efficaci e molti casi di infezioni post-vaccinali.

Talaat nota che nel caso dell’influenza, “non si parla di virus che elude il vaccino, ma si dice: ‘Quest’anno il vaccino è efficace al 47 per cento’ o ’60 per cento…’, cioè si fa riferimento all’efficacia”. Ma anche se i vaccini antinfluenzali hanno un’efficacia relativamente scarsa, dice, sono “meglio di niente”, poiché salvano vite e prevengono i ricoveri.

I tassi di infezione post-vaccinale possono aumentare se la popolazione vaccinata è piccola e c’è un alto numero di casi nella comunità. Al contrario, un’alta copertura del vaccino significa che la popolazione vaccinata costituisce una proporzione maggiore dei casi complessivi. Se quasi tutti sono vaccinati, è più probabile che i casi che si verificano siano in qualcuno che è stato immunizzato. Questa era la situazione in un’epidemia nel Massachusetts in cui il 74 per cento delle persone positive ai test era stato vaccinato in una regione in cui circa il 69 per cento dei residenti idonei aveva ricevuto i vaccini.

Altri fattori contribuiscono a una sovra-rappresentazione di pazienti con infezioni post-vaccinali, tra cui l’età e le condizioni di salute associate a un sistema immunitario indebolito. Spesso questi pazienti hanno un livello di immunità che produce una risposta ridotta al vaccino, quindi possono essere più a rischio delle persone più giovani non affette che non sono immunizzate.

Simili a quelli che vengono somministrati di routine per la pertosse, i richiami per COVID-19 possono essere necessari per le persone con un sistema immunitario soppresso o per un’immunità che diminuisce gradualmente. Talaat indica segnalazioni di buone risposte a una terza dose di vaccino COVID-19 in pazienti che hanno avuto un trapianto d’organo. Francia e Israele hanno già aggiunto una terza dose raccomandata per alcuni riceventi immunocompromessi, e il Regno Unito sta considerando di farlo. Il Comitato consultivo dei CDC sulle pratiche di immunizzazione si è riunito il 22 luglio per rivedere i dati relativi ai richiami nelle persone immunocompromesse e ha concluso che per questa popolazione di pazienti potrebbe essere necessaria una terza dose.

In una teleconferenza a tema economico di fine luglio, Pfizer ha citato alcuni risultati preliminari non pubblicati su 23 partecipanti a studi clinici che hanno mostrato una maggiore protezione contro la variante Delta dopo una terza dose del suo vaccino a mRNA. Durante l’evento, l’azienda ha dichiarato di essere in procinto di presentare i risultati sulla terza dose alla statunitense Food and Drug Administration in agosto nel tentativo di ottenere l’autorizzazione all’uso di emergenza per un richiamo.

Nel frattempo, “non sappiamo se i richiami funzioneranno, ma se vacciniamo tutti, allora questo proteggerà il 2,7 per cento delle persone negli Stati Uniti che sono immunocompromesse”, ha spiegato Talaat. “E non dovranno preoccuparsi di quanto bene o male funziona il loro sistema immunitario per proteggersi dal virus.”

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