Sud e disabili, no a diritti dimezzati

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Al momento dell’unificazione d’Italia il Nord e il Sud non erano molto lontani. Si sono allontanati durante il fascismo, e si sono poi ravvicinati negli anni cinquanta grazie all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, che tra i suoi compiti ebbe quello di formulare e realizzare un piano di opere straordinarie dirette in modo specifico al progresso economico e sociale dell’Italia meridionale.

Un piano coordinato con i programmi di opere predisposte dalle amministrazioni pubbliche. Negli ultimi trent’anni la forbice tra le “due italie“, al di là delle tante chiacchiere che si sono fatte, è tornata ad allargarsi.
Ciò è testimoniato da tanti indicatori: da quello della dotazione infrastrutturale che continua a penalizzare il Sud, a quello delle retribuzioni che in Lombardia, Emilia Romagna, Trentino arrivano a 31.711 euro mentre nel Sud raggiungono appena 24 mila euro; al tasso di occupazione che al Nord è il 73,1 per cento mentre nel meridione è 20 punti sotto.

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Una disuguaglianza intollerabile si registra anche nei servizi pubblici per il welfare culturale come le biblioteche e soprattutto nella spesa sociale per i disabili, rispetto alla quale le Regioni del Nord riservano a un disabile una spesa sociale annua pari a 5.530 euro a fronte di 974 euro delle regioni del Sud.

Le stesse Fondazioni bancarie (che fanno certamente un’opera meritoria in sinergia con le istituzioni locali) devolvono alle Regioni del Nord per i cittadini più  fragili il 93% e solo il 7% al Sud.

Che nei confronti dei disabili i divari territoriali si stiano allargando ulteriormente lo dice anche il Rapporto Istat 2021, che segnala su dati 2018 l’aggravarsi del differenziale, pur in un quadro di un aumento della spesa dei comuni (+ 6,9 %), arrivata a un totale in valori assoluti di 2 miliardi di euro.

L’incremento medio del 6,9%, però non è distribuito in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, anzi il Nord-est è l’area con l’aumento più sostenuto (+ 10,7 %), seguono il Centro (+ 7,9 %), il Nord-ovest (+ 7,6 %) e le Isole (+ 3,5 %); la spesa è rimasta, invece, stabile al Sud, in linea con il precedente anno. Il risultato in termini di spesa pro capite per disabile va dai 5.509 euro del Nord-est ai 1.017 euro del Sud.

Purtroppo la musica non cambia neppure per l’assistenza domiciliare ai disabili integrata da servizi sanitari perché anche in questo campo a primeggiare sono le Regioni del Nord. Infatti a guidare questa particolare classifica è il Veneto con l’11,1 % dei disabili raggiunti (3.924 persone), mentre il Sud arranca.

Nel Nord-est, ogni centomila adulti, ce ne sono 174 ospiti di strutture residenziali per disabilità, nel Mezzogiorno, invece, ce ne sono appena 74.

Tutto ciò è assolutamente intollerabile, perché i livelli di prestazioni sociali come il sostegno ai disabili dovrebbe essere garantito a tutti in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale.

Ma così non è, tant’è che la data per raggiungere la soglia minima dei diritti continua a essere spostata in avanti sul calendario: nel 2011 l’obiettivo andava raggiunto entro cinque anni, vale a dire a partire dal 2014. Poi la data è slittata al 2021 e successivamente al 2030. E come se la misura non fosse già colma recentemente la ministra agli Affari regionali, Mariastella Gelmini in un intervento ufficiale alla Bicamerale sul federalismo ha affermato: “si tratta di trovare un equilibrio finanziario: al 100 %  francamente credo che non si possa arrivare “. Mettendo così in forse anche la data del 2030.

Simili affermazioni equivalgono a dire a un disabile e alla sua famiglia che se vive nel Sud non potrà mai essere trattato come un cittadino italiano che risiede in un’altra Regione. E questo, oltre ad essere incostituzionale perché non ci possono essere diritti dimezzati, è anche crudele perché sull’altare dell’equilibrio finanziario non si possono sacrificare i più fragili, coloro che hanno maggiormente bisogno.

Certo anche il tema dell’equilibrio finanziario ha valore costituzionale, ma la legge 243/2012, quella sull’attuazione del principio del pareggio di bilancio stabilisce che se ci sono enti locali in difficoltà lo Stato “concorre al finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali“.

Ciò  vuol dire che si può tagliare tutto tranne i livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Ma, ad onor del vero, c’è da dire che purtroppo dopo vent’anni dal loro inserimento nella Carta costituzionale i Lep non sono stati ancora definiti.
Nelle dichiarazioni programmatiche dei governi che si sono succeduti alla guida del Paese in questi ultimi vent’anni e nelle discussioni sulle leggi di bilancio si è sempre accennato a questa questione, ma non si sono fatti mai passi concreti.
Quindi c’è solo da sperare- in attesa che il governo batta un colpo – che l’accenno contenuto nel cosiddetto Piano nazionale di ripresa e resilienza abbia maggiore fortuna. Se non altro perché mi ostino a pensare che un piano da tutti presentato e osannato come il Piano che segnerà la rinascita del Belpaese, non può progettare un’Italia disuguale.

Salvatore Bonura

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