Cento giorni non sono un tempo congruo per dare un giudizio netto sull’operato del governo guidato dal presidente Draghi; un esecutivo che ha dovuto fronteggiare una pandemia che ha mietuto decine di migliaia di vittime, e ha avuto effetti devastanti sul sistema economico come quello del Sud, già particolarmente provato dalla grande crisi del 2008.
Ma se è vero come è vero che l’esiguità dello spazio temporale in cui ha operato non permette di dare giudizi definitivi, è anche vero che cento giorni possono essere sufficienti per capire se la direzione di marcia intrapresa dal governo sia quella giusta.
A mio giudizio i risultati più significativi il premier Draghi li ha ottenuti in campo internazionale, forse perché “aiutato“ dal prossimo ritiro dalla scena politica di Angela Merkel, e anche dal fatto che Macron è già assorbito dagli impegni che comporta la prossima campagna elettorale francese.
Grazie a questo; e facendo leva sull’esperienza e sull’autorevolezza acquisite con gli incarichi ricoperti in precedenza, e sugli ottimi rapporti che vanta con il Presidente degli Stati Uniti e con la Presidente della Commissione europea Ursula Von der Layen, Draghi ha fatto sentire forte e chiara la sua voce.
L’ha fatta sentire una prima volta quando, di fronte ai ritardi nelle forniture delle dosi, il suo governo aveva deciso di bloccare l’esportazione del vaccino Astra Zeneca dagli stabilimenti italiani della multinazionale. Utilizzando a questo scopo una eventualità prevista dai Regolamenti dell’Unione europea a cui nessuno aveva pensato prima.
E una seconda volta quando, durante una conferenza stampa, richiesto di un parere, di un commento sul caso della sedia mancante per la Presidente della Commissione europea, in visita in Turchia, aveva risposto con durezza definendo Recep Erdogan un dittatore.
Ma se sul piano internazionale si è ritagliato un ruolo centrale, non si può dire lo stesso sul piano della politica interna. Anche se i due obiettivi che si era dato: imprimere una forte accelerazione per raggiungere l’immunità di gregge entro la fine dell’estate, e presentare il Piano nazionale di ripresa e resilienza, sulla base del quale spendere i soldi stanziati dall’Europa; sono stati o sono in procinto di essere raggiunti.
Infatti rimosso Arcuri e insediato al suo posto, come Commissario Covid, il generale Figliuolo si è arrivati a circa 30 milioni di cittadini italiani vaccinati e, a fine aprile con la presentazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ha inviato a Bruxelles un progetto più sostanzioso di quello elaborato dal precedente governo Conte.
Intendiamoci sul Piano nazionale di ripresa e resilienza siamo ancora agli inizi, e la partita è ancora tutta da giocare. E non sarà una partita facile soprattutto perché i partiti che sostengono il governo non sono uniti, come si è visto sulla questione del coprifuoco e delle riaperture, con la Lega e Forza Italia a spingere, il ministro Speranza a frenare e il PD a mediare; e come si sta vedendo in questi giorni con le proposte relative al fisco che guardano in direzioni opposte: la Lega vuole la Flat Tax o uno strumento che alleggerisca e semplifichi l’imposizione fiscale, il PD chiede una tassa di successione per eredità o donazioni superiori a 5 milioni di euro per dare ai giovani diciottenni una dote di 10 mila euro.
Il Presidente Draghi ha risposto picche agli uni e agli altri: a Salvini ha rammentato che la progressività delle aliquote va preservata, e a Letta ha detto che questo è il momento di dare, non di prendere.
In materia di fisco dunque, come in materia di riforma della pubblica amministrazione, di riforma della giustizia e di migranti, i partiti che sostengono l’attuale esecutivo sono ben lontani da un sentire comune.
Andare avanti con i vari decreti a sostegno delle attività produttive e con il blocco dei licenziamenti come si è fatto sinora – muovendosi grosso modo sulla stessa scia del governo Conte – è una cosa, marciare sulle altre questioni, in particolare sulle riforme, è un’altra cosa.
Ne consegue che il premier Draghi e il suo governo non saranno giudicati sulle cose fatte, ma sulle riforme da fare, perché se non arrivano le riforme non riusciremo a fare le due cose che ci chiede il Recovery Fund: spendere le risorse che ci sono state assegnate e soprattutto spenderle bene, rendicontandole cioè entro il 2026. Da questo dipende anche la possibilità di difendere in Europa la stessa reputazione dell’Italia.
Da questo punto di vista quindi il provvedimento sulla semplificazione, e le stesse norme sugli appalti che dovrebbero vedere la luce entro questa settimana, saranno la cartina di tornasole per capire se è possibile conciliare le diverse “sensibilità“ presenti nel governo e marciare compatti nella difesa degli interessi del Paese.
Salvatore Bonura