Già durante l’Età del Bronzo esistevano scambi e forti legami tra le popolazioni che abitavano la Calabria tirrenica e quelle della Sicilia settentrionale. A rivelarlo è l’analisi di molecole di DNA estratte da resti ossei risalenti ad oltre 3500 anni fa e rinvenuti nel sito di Grotta della Monaca, in provincia di Cosenza. Gli esiti della ricerca – guidata dal team del Laboratorio del DNA Antico (aDNALab) dell’Università di Bologna – sono stati pubblicati sulla rivista Genes.
“Queste sequenze di DNA antico rappresentano la prima evidenza archeogenetica mai attestata in Calabria, nonché una tra le più antiche identificate nel Sud Italia”, dice Francesco Fontani, dottorando al Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna e co-primo autore dello studio. “Questa analisi ha permesso di evidenziare un legame genetico, trasmesso per via materna, tra le comunità di Grotta delle Monaca e le popolazioni coeve della Sicilia vissute tra il Neolitico e l’Età del Bronzo”.
L’area della provincia di Cosenza è nota da tempo per aver avuto un ruolo fondamentale nella preistoria dell’Italia meridionale. Nel corso del Neolitico e durante l’Età dei metalli fu infatti uno dei territori di spicco per la metallurgia in Italia, e questo ha favorito la nascita di una stretta rete di contatti tra le comunità locali e le popolazioni del basso Tirreno.
È in questo contesto che si inserisce il sito di Grotta della Monaca, una grotta carsica che si trova a 600 metri sul livello del mare nell’area di Sant’Agata di Esaro, in provincia di Cosenza. Il sito è stato frequentato dall’uomo già a partire dal tardo Neolitico (oltre 4000 anni fa), quando l’ampia grotta era sfruttata per attività minerarie. A partire dalla Media Età del Bronzo, poi, le cavità più interne iniziarono ad essere utilizzate anche come sepolcreto: una pratica funeraria forse riservata a persone di elevato livello sociale. Proprio in una di queste aree sono venuti alla luce i resti di almeno 24 individui, risalenti a circa 3500 anni fa.
Ora, dall’analisi di questi reperti, grazie ad una tecnica nota come hybridization capture, i ricercatori sono riusciti a isolare e sequenziare quantità di DNA sufficienti per l’identificazione del genoma mitocondriale di due individui. E il confronto con altri resti preistorici ha rilevato forti affinità con campioni rinvenuti in siti archeologici della Sicilia risalenti al Medio Neolitico, all’Eneolitico e alla prima Età del Bronzo.
“I due genomi mitocondriali che abbiamo individuato appartengono entrambi all’aplogruppo H, la tipologia di DNA mitocondriale oggi più diffusa in Europa che si stima sia arrivata nel nostro continente dal Vicino Oriente prima dell’Ultimo Massimo Glaciale, circa 22000 anni fa”, dice Elisabetta Cilli, co-primo autore del lavoro. “In particolare, l’analisi filogenetica ha messo in evidenza una forte relazione tra uno degli individui di Grotta della Monaca e due campioni siciliani risalenti all’Età del Bronzo e provenienti dalle necropoli di Marcita, nell’area di Trapani, e Contrada Paolina, in provincia di Ragusa”.
Studi su frammenti di oggetti rinvenuti in diversi siti archeologici avevano già in passato suggerito connessioni e scambi tra l’area tirrenica della Calabria, la Sicilia orientale ed anche le Isole Eolie. “Questi risultati – sottolinea Donata Luiselli, responsabile dell’aDNA Lab, che ha coordinato lo studio – aprono ora nuove strade per una comprensione più approfondita delle dinamiche demografiche avvenute nel corso della preistoria e della protostoria del Sud Italia”.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Genes con il titolo “First Bronze Age Human Mitogenomes from Calabria (Grotta Della Monaca, Southern Italy)”. La ricerca è stata guidata da Elisabetta Cilli e da Francesco Fontani, entrambi archeogenetisti presso il Laboratorio del DNA Antico del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna (Campus di Ravenna), nell’ambito di un ampio progetto di dottorato di ricerca volto a indagare il patrimonio genetico antico delle comunità del Sud Italia.
Il lavoro di ricerca e analisi è stato realizzato anche grazie alla stretta collaborazione con gli speleo-archeologi del Centro Regionale di Speleologia “Enzo dei Medici” e con studiosi del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, nonché del supporto logistico del Comune di Sant’Agata di Esaro. Hanno contribuito inoltre studiosi dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, dell’Università degli Studi di Ferrara e dell’Università degli Studi di Firenze.