Ho sempre pensato che, se per far funzionare le cose bisogna derogare a tutte le norme sancite da leggi e regolamenti, vuol dire che quelle norme non vanno bene. Sarebbe più logico avere regole che funzionano e applicarle sempre, rendendole ancora più efficaci in situazioni di emergenza. Derogare su tutto può sembrare la strada più semplice, ma non ritengo sia una buona soluzione.
Credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che l’avvio dei cantieri sia la strada più rapida per rilanciare l’economia post-coronavirus. Le altre strade – dalla riforma della giustizia, a quella fiscale e della burocrazia – sebbene siano delle priorità di prima grandezza, richiedono molto più tempo per produrre risultati tangibili. I grandi lavori, invece, possono offrire risposte immediate. Infatti le 101 opere più importanti, tra quelle pronte a partire, da sole metterebbero in moto 56 miliardi di euro, con una ricaduta sull’economia dell’Italia di 217 miliardi di euro che corrispondono al 14% del Prodotto interno lordo e la crescita di quasi un milione di posti di lavoro.
Se penso che nel secondo trimestre, rispetto al primo, alcuni tra i principali indicatori hanno manifestato una riduzione media del 20% (produzione industriale, fatturato, ordinativi, commercio con l’estero), una caduta del Pil del 12,8%, nonché una flessione dei consumi delle famiglie e dell’occupazione, soprattutto giovanile, ecco, di fronte a un quadro così preoccupante mi sembra assolutamente utile ragionare sulle regole, puntando ad averne di concretamente percorribili.
Il leader della Lega Matteo Salvini, il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci e una parte del Movimento 5 Stelle sostengono che occorra replicare il modello Genova, con il commissario che agisce al di sopra di tutto e di tutti perché – dicono – questo modello sarebbe la medicina più efficace per far ripartire l’economia dopo il coronavirus. Sono anche convinti che quel modello possa dare certezza sui tempi di realizzazione delle opere e possa evitare le truffe che si nascondono dietro tanti appalti. Come quest’ultimo obiettivo si possa raggiungere non viene, però, spiegato.
Una parte preponderante dell’imprenditoria, capitanata dall’ANCE, la potente associazione dei costruttori di Confindustria, il Ministro alle infrastrutture Paola De Micheli e una parte significativa delle forze politiche, ritiene, invece, irripetibile l’esperienza fatta per la costruzione del ponte di Genova. Lo strumento legislativo applicato alla città ligure (basato sull’eliminazione di qualsiasi controllo pubblico, sulle mani libere del commissario straordinario nell’affidamento e nella realizzazione dell’opera senza gara e l’assegnazione nominale della progettazione) si poteva giustificare solo per l’onda emotiva sollevata dalla gravità della sciagura e quindi solo perché si erano verificate circostanze eccezionali. Solo l’urgenza di ricostruire il ponte e di dare una risposta al dolore e all’emozione per i morti ha annullato tutte le procedure standard: controllo sui prezzi, verifica antimafia, regole sugli appalti. È immaginabile – si chiedono imprenditori, Ministro, forze politiche – applicare questo modello su larga scala?
Se si pensa a tutte le insidie, a tutte le pressioni e alla corruzione che si nascondono dietro tantissimi appalti, non solo nel Sud ma in tutto il Paese, la risposta non può essere un semplice sì. La gara per l’assegnazione dell’appalto per la realizzazione di un’opera è certamente una garanzia per tutti: per l’imprenditore, per i suoi dipendenti, per i cittadini che usufruiranno di quell’opera, per la stessa credibilità dello Stato che ha il compito di garantire le stesse opportunità a tutte le imprese che intendono concorrere all’aggiudicazione di quel lavoro e di far rispettare le regole. Tutte cose giuste e condivisibili.
Ma mi chiedo: il modello Genova deve servire solo come esempio per i risultati che ha prodotto, in termini di tempi di realizzazione e di qualità della progettazione dell’opera e di capacità dei tecnici e delle maestranze italiane impegnate nella costruzione del ponte? Io penso assolutamente di no. Ciò perché ritengo che questa esperienza debba servirci per individuare un modello, un percorso che – fatti salvi il diritto alla libera concorrenza, l’esigenza di tempi e procedure assolutamente certe e di qualità dell’opera e la garanzia contro qualsiasi truffa e condizionamento mafioso – sia basato su regole trasparenti ed efficaci.
Pensare di replicare le regole in vigore senza tener in nessun conto del modello applicato nella costruzione del ponte di Genova significa lasciare le cose come stanno, quindi rinviando alle calende greche la realizzazione di molte opere. E questo, con la crisi in atto e con i problemi che si prospettano anche per la tenuta occupazionale, non possiamo permettercelo.