Cara Michela Murgia,
poche righe soltanto su un tuo video che in queste ore ha fatto il giro del web, e che ha lasciato molti sorpresi. Si tratta di diciassette minuti di conversazione, peraltro molto piacevole, con la scrittrice Chiara Valerio. Cominci parlando di come ciascuno affronti questo tempo difficile, di come sia bello avere un giardino, e un giardino in Sardegna: e quanta ragione hai. Prosegui discorrendo di musica, di come sia importante in questi giorni l’ascolto. Tu ascolti Mozart, par di capire, e i tuoi occhi brillano di passione sincera mentre discuti del Don Giovanni, della finezza del libretto di Da Ponte, della grandezza di una regia di Micheletto. Si vede che sei una donna di teatro.
Ad un certo punto, però, cadi in uno stereotipo grande quanto una casa. Volendo fare un esempio di intellettualismo fine a se stesso – atteggiamento odioso, sono d’accordo – tiri in ballo Franco Battiato: i cui testi dici di considerare “minchiate assolute, citazioni su citazioni e nessun significato reale”. E fin qui, niente di male. Sarebbe legittimo persino se qualcuno affermasse di non apprezzare Mozart: incomprensibile, ma legittimo. La cosa sarebbe finita lì, con la giusta replica della Valerio per la quale “tutto ciò che include la presenza attiva dell’ascoltatore è mistico”. Ma tu non ti fermi e obietti che con lo stesso criterio potrebbero essere considerati mistici “anche i testi di Sabrina Salerno” (perché no, povera Sabrina?). E allora?
Allora, proseguendo nella tua intemerata su Battiato, citi una canzone: “Cuccuruccuccù”. E ti chiedi, con una certa aria di scherno, che misticismo vi sia in quel cuccuruccucù. Ecco, cara Michela, lì dai proprio l’impressione di parlare di qualcosa che non conosci. Perché ridurre cinquantaquattro anni di carriera ad un brano giovanile (per ammissione dello stesso Battiato squisitamente commerciale), sarebbe davvero troppo ardito per chi quella carriera la conosca almeno un pochino. Certo “Cuccuruccucù” è un brano leggero, da ballare, come tutto l’album “La voce del padrone”. E certamente tu hai il diritto di dire che i testi di Battiato siano sciocchezze tout court – anche gioielli come “Stati di gioia”, “Stage door”, “I’m that”, “I giardini della preesistenza”, “Il mantello e la spiga”, cito in disordine e a caso – “minchiate assolute, citazioni su citazioni e nessun significato reale”.
Ma noi estimatori abbiamo il diritto di pensare che tu quei testi non li abbia mai letti, mai ascoltati, e non possa quindi giudicarli. Che tu conosca, di Battiato, “Cuccuruccucù” e poco altro – citi giusto “Povera patria” e “La cura” – e che quel poco ti basti per affermare che l’artista sia sopravvalutato (e lascia perdere che in questo momento quell’artista non stia bene e non possa risponderti: dubito, comunque, che lo avrebbe fatto). Insomma, guardando questo video non riesco a non pensare che stavolta la “minchiata assoluta” l’abbia detta tu. E forse lo avresti ammesso, ma i diciassette minuti della conversazione sono risultati troppo pochi. Però ti sei sentita in dovere di intitolarla proprio “Il finto intellettualismo* di Battiato”, quella conversazione. A pensar male, uno penserebbe che tu abbia voluto attirare l’attenzione**. Bhé, ci sei riuscita. Ma non so mica se ci abbia fatto una bellissima figura.
Ed è un peccato, perché sentirti parlare con amore di Mozart faceva bene al cuore.
Con cordialità.
* A proposito, “finto intellettualismo” è una contraddizione in termini sulla scia di “falso buonismo”. Se “intellettualismo” è “ogni forma di teoreticismo e razionalismo a cui manchi il senso concreto della vita sentimentale, pratica, estetica dell’uomo” (Treccani), mettendoci “finto” davanti neghi la stessa critica che vuoi formulare. Ma davvero, Michela, che t’è successo quel giorno?
** Corre obbligo di precisare come, più o meno nello stesso momento in cui veniva pubblicata questa lettera, la Murgia abbia commentato le sue parole parlando di “provocazione”. Ed in effetti, a ben guardare, il suo video era stato pubblicato il primo aprile. Un banalissimo “pesce”, dunque? Ma perché aspettare cinque giorni per dirlo, cara Michela? Almeno ci avresti risparmiato la fatica di scrivere.