La foto è quella apparsa per giorni sui media italiani, mentre si batteva tra la vita e la morte in una stanza dell’ospedale Hautepierre di Strasburgo: Antonio Megalizzi con le cuffie, sorridente, durante una trasmissione di Europhonica, la web radio con cui collaborava nella capitale d’Europa. Adesso Antonio sorride di nuovo, sulla copertina del libro che avrebbe voluto scrivere e che infine ha scritto. La penna – e il cuore – l’ha messa per lui Paolo Borrometi, vicedirettore dell’AGI, autore de Il sogno di Antonio. Storia di un ragazzo europeo, edito da Solferino. Un libro-testimonianza che contiene gli scritti inediti del giornalista ucciso nell’attentato al Christkindelsmärik di Strasburgo l’11 dicembre 2018, insieme ad altre quattro persone e allo stesso attentatore: un ventinovenne francese di origini algerine, che agiva in nome del sedicente Stato Islamico. Sembra passato un secolo, vero? Invece sono trascorsi meno di trecentosessantacinque giorni. Il libro di Antonio, scritto da Paolo, ce lo ricorda.
Paolo Borrometi, un anno dopo la strage del mercatino di Natale di Strasburgo arriva questo libro su Antonio Megalizzi che contiene i suoi scritti. Che persona era Antonio, qual è il suo lascito?
Antonio era un ragazzo normale, entusiasta, che sognava di fare il giornalista. In questo mi sono rivisto molto. Non aveva ancora il tesserino da giornalista, gli fu conferito postumo alcuni giorni dopo la sua morte. Per poter collaborare ad Europhonica, dove raccontava l’Unione Europea, Antonio svolgeva altri lavori. Questo fa comprendere quanto fosse innamorato del giornalismo, quanta passione mettesse in ciò che faceva. Si era dato una missione: scovare le fake news, smontarle nei suoi scritti. Gli scritti inediti che si trovano nel libro.
Fake news che riguardano sopratutto l’Unione Europea.
L’UE è tutt’altro che perfetta. E’ un concetto ancora astratto, che va molto migliorato. Lo sappiamo tutti, lo sapeva anche Antonio. Ma si era anche accorto che ci sono fake massacranti verso l’Unione Europea, e le investigava giorno per giorno, ora per ora.
Megalizzi sognava un’Europa senza muri, senza confini, che rispondesse con la vita al germe di morte del terrorismo.
Antonio apparteneva ad una generazione cresciuta nell’Europa senza frontiere. Lui, calabrese trapiantato al nord, quando partiva da Trento per andare Strasburgo non incontrava blocchi sul suo cammino. Un fatto inimmaginabile fino a pochi decenni fa. Antonio pensava che l’Europa potesse migliorare costruendo ponti, non muri. I muri vanno abbattuti, com’è successo trent’anni fa con il muro di Berlino. Perché i muri non sono mai la soluzione. Infatti, quando parlava di stragi come quella del Bataclan, si concentrava sulla ghettizzazione dei musulmani, nati e cresciuti in Francia, ma confinati nelle banlieue.
E’ lì che nasce il seme dell’odio.
E l’odio viene lavato sempre con altro odio, purtroppo. Antonio pensava che se uno ti punta la pistola addosso, la soluzione non è sparargli per primo. Guardando la sua storia, queste parole sono davvero parole straordinarie. Perché fanno comprendere come la reazione all’odio sia la cultura, non altro odio.
Il vento che soffia in Europa però è diverso. Le elezioni europee hanno premiato quelle forze politiche che puntano sui muri, sulle barriere, sulla difesa delle identità nazionali.
Non voglio trascinare Antonio in un agone politico che non merita. Ma certamente il sovranismo all’ennesima potenza non fa che costruire ulteriori muri, alimentare ulteriore odio. E questo non aiuta certo il sogno di un’Europa dei popoli.
I famosi Stati Uniti d’Europa…
Gli USA sono la prima potenza mondiale – o la seconda, ormai, dietro la Cina – proprio perché hanno costruito un’identità di intenti straordinaria. L’Europa è ancora un progetto incompleto, non ha mai ritrovato lo spirito dei Padri Fondatori. Forse il pensiero di Antonio, che rappresenta la generazione dei ragazzi senza frontiere, può dare una mano in questo senso. Non abbiamo frontiere fisiche, non creiamo frontiere di pensiero.
Tra i drammi di questa Europa non c’è solo la minaccia del terrorismo, ma anche l’antisemitismo strisciante. Tu sei stato uno degli intellettuali italiani che hanno preso posizione in difesa della senatrice Liliana Segre per le minacce ricevute.
Liliana Segre è una donna di quasi novant’anni. Una donna che ha stampato sul braccio il numero di Auschwitz. Una donna che ha rischiato di finire nel forno crematorio. Quando una donna del genere è costretta a vivere sotto scorta per le minacce degli odiatori di professione di questo Paese, c’è da preoccuparsi. Non è più un problema di destra o di sinistra, è un problema culturale.
Un problema che nell’anno 2019 non dovrebbe esistere.
Certo che no. Perché se tu hai un colore della pelle diverso dal mio, sei una ricchezza. E così per il credo religioso, le tradizioni culturali. La frase attribuita a Voltaire – “Non condivido la tua idea ma darei la vita perché tu possa esprimerla” – significa proprio questo. La diversità di persone e di idee è ricchezza, perché rappresenta un pungolo per ragionare da punti di vista diversi dal nostro.
Poche settimane fa a New York hai ricevuto il prestigioso premio Macker e lo hai dedicato ad Antonio Megalizzi ma anche a Daphne Caruana Galizia. Nei giorni scorsi a Malta le indagini per il suo omicidio sono arrivate ad una svolta.
Avevo un rapporto epistolare con Daphne, il suo omicidio mi ha turbato molto. Bisogna ricordare che ciò che le è accaduto è accaduto in Europa, a ottanta chilometri in linea d’aria dalla mia provincia di Ragusa, dalla nostra Sicilia, dalla nostra Italia. Questo ci deve far comprendere che non si tratta di un episodio lontano, ma di un avvenimento che riguarda tutti noi.
Daphne fu uccisa con un’autobomba.
La stessa modalità che secondo i Magistrati della Procura di Catania si voleva utilizzare per uccidere me e i ragazzi della mia scorta. Tornando a lei, c’è un problema di verità che con l’arresto del mandante dell’omicidio si avvicina. Però bisogna andare avanti, fare piena chiarezza: perché quel mandante e la sua società erano stati accusati da Daphne di corrompere i laburisti maltesi.
Ancora oggi c’è chi dice che se la sia cercata.
Questo non si può accettare. Quando cade un giornalista, ovunque si trovi, che si chiami Antonio Megalizzi, Dapnhe Caruana Galizia, Ján Kuciak, dobbiamo chiedere anzitutto verità. Perché quella sorella e quel fratello giornalista cercavano la verità per ognuno di noi.
L’ultima dedica del premio Macker l’hai fatta ai due cuginetti uccisi da alcuni delinquenti a Vittoria. Paolo, ci saranno mai pace, speranza, futuro per una terra dove si lasciano accadere queste cose?
Quella di Vittoria è stata una strage causata dal figlio di un boss, che si chiama Saro Greco, che due settimane prima di falciare Alessio e Simone aveva tentato di uccidere una persona di fronte ad almeno quaranta testimoni. Come lo spieghiamo ai genitori di Alessio e Simone che nessuna di quelle quaranta persone – nessuna! – ha denunciato, e che se avesse denunciato i loro figli sarebbero ancora con loro?
Non glielo spieghiamo. Non si può spiegare.
Ecco. Quale futuro ci può essere per una terra che non denuncia? Una terra che continua a nutrirsi di omertà? Viviamo in un posto magnifico e non meritiamo la grandezza della storia e delle persone che ci hanno preceduto. Se non cambiano le nostre ambizioni, se non cambia la nostra cultura, non potrà esserci alcun futuro.