Berna, Svizzera, 1967. Dalle elezioni per il Consiglio Nazionale, la camera bassa del Parlamento Elvetico, viene fuori un risultato a sorpresa. Il partito di destra Nationale Aktion riesce ad eleggere un rappresentante. Si chiama James Schwarzenbach, è un facoltoso editore. Ha cinquantasei anni, l’aria seria, professorale. Innocua.
In Parlamento è completamente isolato. Eppure, nel giro di pochi mesi, riuscirà a monopolizzare il dibattito politico mettendo sul tavolo una questione che tocca la pancia degli svizzeri: l’enorme presenza di stranieri sul loro territorio. E stranieri, nella Svizzera degli anni Sessanta e Settanta, vuole dire sopratutto italiani. Dietro l’aspetto distinto da intellettuale, Schwarzenbach si rivela un tribuno populista, il primo della storia. Al grido “La Svizzera agli svizzeri!” riesce a far celebrare un referendum per chiedere di espellere trecentomila stranieri dal Paese. Diventa una popstar, riempie i teatri, firma autografi, riceve lettere. E arriva ad un passo dal colpo grosso, perdendo la consultazione per circa centomila voti.
Parte da qui la storia raccontata dal giornalista Concetto Vecchio, firma di Repubblica, nel suo ultimo libro Cacciateli! Quando i migranti eravamo noi, edito da Feltrinelli. Un saggio, già alla terza edizione, che alterna ricostruzione storica e racconto familiare, ripercorrendo la parabola di Schwarzenbach a partire dalle vicende dei genitori dell’autore, originari di Linguaglossa emigrati in Svizzera come tanti italiani degli anni Sessanta. “Questo libro nasce dalla necessità di recuperare la memoria, in un tempo in cui la storia è vilipesa e la società soffre di presentismo – dice Vecchio ai microfoni di Hashtag Sicilia – E’ un libro di storia ma è anche un romanzo, che racconta di due persone poverissime costrette a lasciare la Sicilia per sopravvivere. Erano mio padre e mia madre, e anche loro erano sarebbero stati espulsi se l’iniziativa Schwarzenbach fosse passata”.
Una storia come tante, quella dei genitori del giornalista, costretti a lasciare il proprio Paese per inseguire altrove il sogno di un futuro migliore. O perlomeno diverso: “I miei erano dei traditi del boom economico – ricorda Vecchio – perché il boom tanto celebrato riguardò sopratutto il nord. Per tanti lavoratori del sud – come papà, che era un ebanista – non restava che emigrare. Così anche per mia madre, che faceva la sarta e proveniva da una famiglia ancora più povera. L’opzione era partire per lavorare o restare e morire di fame”.
Per fortuna, mentre l’Italia degli anni Sessanta si divide tra nord produttivo e sud arrancante, la Svizzera è ghiotta manodopera estera. Tra il 1962 e il 1974 il Paese elvetico ha un tasso di disoccupazione pari a zero, e ha bisogno di uomini per le sue fabbriche e manifatture. Migliaia di italiani partono, disposti a faticare, ad accettare contratti precari e sistemazioni ai limiti della dignità pur di lavorare. “La manodopera italiana era necessaria al mantenimento del benessere svizzero – spiega l’autore – nonostante ciò inizia a farsi strada la paura che porta al referendum di Schwarzenbach. L’italiano spaventa perché lavora molto, anzi troppo, perché è agile e sveglio, perché ha successo con le donne indigene”.
Da questo malessere serpeggiante si innesca la parabola di Schwarzenbach. “Il populismo trae il suo fondamento dal fatto identitario, dalla paura del diverso, non da ragioni economiche – prosegue Vecchio – Il caso svizzero lo dimostra. E dimostra anche come le radici del populismo contemporaneo siano solide e lontane. Schwarzenbach fu il primo populista della storia, per il suo modo di ragionare, la sua tecnica comunicativa, i suoi slogan. Tutte cose che oggi vediamo all’opera nel nostro Paese. Se togliamo gli italiani e sostituiamo gli immigrati africani, le parole d’ordine, le campagne d’odio, l’insofferenza sono esattamente le stesse. Quello che diciamo oggi agli stranieri, un tempo fu detto a noi”.
Una vicenda drammaticamente attuale, dunque, quella raccontata in Cacciateli!. “La storia dovrebbe insegnarci ad affrontare con meno paure le urgenze della contemporaneità – conclude Vecchio – questa è la morale del libro sul piano storico-politico. Sul piano personale, scrivere mi ha aiutato ad avere consapevolezza della mia famiglia. Conoscevo la storia dei miei, naturalmente, in parte l’avevo anche vissuta. Ma le cose veramente profonde le ho scoperte scrivendo, raccontando la parabola di persone indigenti ma pronte a riscattarsi con il lavoro. E solo per questo considerate diverse“.