L’aumento dell’imprenditoria straniera non è una buona notizia

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Ancora una volta tante voci dell’area “pro-immigrati” si entusiasmano leggendo la ricerca CENSIS – peraltro mediocre – che non fa che registrare quanto già si sa da anni (ne avevo scritto nel 1992 in francese e nel 2002 in italiano qui).

L’aumento continuo della cosiddetta imprenditoria straniera non conosce crisi, è composta da giovani e aumenta a differenza di quella italiana che diminuisce. Decine di ricercatori considerati rinomati, fra i quali quelli che hanno contribuito al convegno Neodemos del 2015, L’integrazione delle comunità immigrate e l’imprenditoria straniera per la Fondazione CESIFIN, quelli della Fondazione Moressa e ancora altri per altre committenti, continuano a esaltare l’epopea di questa imprenditorialità (fra parentesi l’abuso del termine comunità impera tanto quanto quello di identità, etnie se non razze – sic!).

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Una epopea che da tempo sembra essere particolarmente apprezzata dal padronato (Confindustria e Camere di Commercio) come da banche e società immobiliari. L’acriticità di queste descrizioni, spesso solo statistiche anche dettagliate ma generiche e senza mai ricerche sul campo di tipo economico-antropologico-etnografico, è tale che vedi caso non si dice nulla di ciò che è palesemente un processo di etnicizzazione liberista. Questa gigantesca lacuna (per usare un eufemismo) riguarda anche il più serio Tito Boeri che seguendo la sua sempre stringente logica econominicistica, insieme a cose giuste (scritta da alcuni di noi da tempo vedi Razzismo democratico) continua a perorare la causa dell’immigrazione perché salva l’economia nazionale e in particolare le pensioni.

Così come in quasi tutti gli altri impieghi, l’immigrato animato dall’aspirazione alla riuscita economica e sociale è incoraggiato a mettersi in proprio per diventare subappaltatore di medie e grandi imprese o caporale. Si compie così una sorta di combinazione fra l’“etica di migrante e lo spirito del capitalismo”. Sull’imprenditore o artigiano o commerciante immigrato si scaricano i rischi e tutti gli oneri di reclutamento della manovalanza “etnica” (anche familiari) a basso costo, magari irregolari, del loro super-sfruttamento se non della loro schiavizzazione, di farsi carico dei lavori più pesanti, nocivi e rifiutati dagli italiani. L’imprenditore etnico diventa così l’ideale pedina nel contesto liberista ancor più in periodo di “crisi” quando i padroni cercano di ridurre ulteriormente i costi della manodopera e i rischi di non rispetto delle norme del lavoro, della sicurezza ecc.

Si ricordi che il primo caso clamoroso di caporalato fu quello di Iannece che bruciò vivo Ion Cazacu (fatto su cui la figlia e Dario Fo hanno scritto il libro Un uomo bruciato vivo). In quel caso il caporale era un “terrone” del Sud che lavorava per un imprenditore del Nord (difeso in tv da Castelli – allora Ministro della Giustizia – che disse che era stato “un incidente”); dopo si sono visti anche caporali leghisti – “terroni del nord”- come quelli che gestivano il cantiere dell’Arcimboldi a Milano o quelli che andavano a prendere alle 5 di mattina gli “schiavi” con i loro furgoncini e scorrazzavano a tutta velocità; fermati da un capo dei vigili urbani di Desio –  “terrone” del sud -, riuscirono a farlo licenziare “perché sabotava l’economia padana” (mia ricerca del 1999). L’etnicizzazione dell’imprenditorialità come di alcuni segmenti dell’assetto economico e sociale si situa perfettamente nel processo liberista che è di segmentazione eterogena, discontinua e instabile di tutte le attività economiche.

Inoltre, questo meccanismo (da sempre sperimentato nel c.d. meltingpot statunitense) contribuisce in modo formidabile sia alla gerarchizzazione sociale, sia a rinchiudere gli immigrati nelle gabbie etnico-religiose – reticoli di parentela e originari dello stesso villaggio o zona- quindi a sostituire l’etnia alla classe). I lavoratori immigrati sono così alla mercé del boss etnico e ancor meglio se è anche religioso, a lui devono la sopravvivenza, la possibilità di un qualche miglioramento, l’accesso all’alloggio ecc. La loro socialità si svolge unicamente fra connazionali, sono rare le loro occasioni di interazioni con gli italiani e ancor meno con qualche militante che possa aiutarli ad emanciparsi.

Questo boss etnico assume a volte persino il ruolo di power-broker: attraverso lui passa ogni intermediazione con la società italiana; è lui che gestisce anche i rapporti per il trasferimento di fondi al paese d’origine, l’alloggio, l’eventuale rapporto con le banche e con gli immobiliari. Queste sono infatti a caccia di questi personaggi per vendere mutui e alloggi nello stesso caseggiato per uno stesso gruppo di famiglie di origini comuni. E non è casuale che il più alto numero di cosiddetti lavoratori indipendenti immigrati si trovi in Lombardia, in Toscana, a Roma ma anche a Torino città, oltre che a Prato e Firenze. Da notare che proprio dopo venti anni di amministrazioni locali di destra a Milano e in Lombardia gli immigrati regolari e irregolari sono aumentati e questo continua anche con le giunte dell’ex-sinistra proprio perché sono indispensabili all’assetto liberista (basta guardare che a Milano buona parte di bar e commerci sono gestiti da immigrati, ma spesso sempre di proprietà di italiani, tranne nel caso dei cinesi e più raramente di alcuni di altre nazionalità).

Come abbiamo già scritto su Effimera, la realtà delle economie semi-sommerse e sommerse non smette mai di intrecciarsi con quelle cosiddette lecite e costituisce oltre il 32% del PIL. Un universo di lavoro precario, semi-nero o da schiavi che nessun partito osa scalfire anche perché rappresenta almeno 10 milioni di elettori. Ovviamente, non è certo Salvini che si preoccuperà di varare un programma di risanamento del c.d. informale e sommerso visto che il suo elettorato è appunto quello che sguazza in questo universo, tant’è che pretende l’abolizione dei controlli e norme (così come Berlusconi prometteva “basta con lacci e lacciuoli”) affinché grandi imprese delle grandi opere ma anche padroncini possano, loro, festeggiare la ripresa della “pacchia”. E non è casuale che ora Salvini dica che gli irregolari da espellere siano 90 mila e non più 500 o 600 mila: servono schiavi per rilanciare l’economia!

E ovviamente non saranno neanche i cinquestelle né il PD a reclamare il risanamento del sommerso e la regolarizzazione dei lavoratori al semi-nero e al nero che sgobbano -finché non crollano o si ammalano o hanno incidenti- per loro elettori che come i leghisti gridano contro gli immigrati appunto perché vogliono solo manodopera senza diritti, cioè usa-e-getta.

Vedi anche:

  • L’insertion des immigrés dans les économies de survie et les économies souterraines en Italie,

in stampa in Les nouvelles migrations économiques en Europa méditerranéenne (a cura di Lamia Missaoui e Alain Tarrius)

  • Approccio critico e questioni teoriche e metodologiche,

comunicazione al convegno “IMMIGRAZIONI. Migrazioni internazionali e lavoro dagli anni Settanta a oggi. Una prospettiva storica”, Salerno – Napoli 22, 23 maggio 2019

* Salvatore Palidda è Professore di Antropologia all’Università degli Studi di Genova. Siciliano, vanta una carriera ricca di insegnamenti, pubblicazioni e articoli. Con questo pezzo inizia la sua collaborazione con Hashtag Sicilia, della quale la Redazione è onorata.

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