Reportage esclusivo. Cile, viaggio tra sogni infranti, memoria, vino e tanto altro…

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Con Virginia, la responsabile dell’Usef in Cile, avevamo concordato di vederci alle cinque del pomeriggio davanti al Palazzo della Moneda. Come al solito arrivai all’appuntamento con largo anticipo, sicché sotto il sole cocente mi abbandonai ai ricordi legati alla mia prima permanenza a Santiago. Rividi, come in un film, i segni dei bombardamenti sul Palazzo Presidenziale, e l’immagine del Presidente eletto democraticamente, Salvador Allende – stampata sui giornali dell’epoca e rilanciata dalle televisioni di tutti i continenti – con il volto devastato dalla delusione del tradimento e dalla stanchezza e con il fucile a tracolla.

Nella mia mente scorrevano ancora quelle immagini quando la voce di Virginia mi ridestò dalle tristi rimembranze. Bevemmo un caffè e ci avviammo all’incontro con i nostri connazionali. Coralis, una donna che aveva subìto l’onta della tortura, del carcere e dell’esilio in Italia, fece gli onori di casa accogliendoci calorosamente e presentandoci tutti i presenti. La riunione, molto partecipata, si rivelò più interessante di quando avessi immaginato, non solo per la qualità della discussione, ma anche perché toccai con mano il bisogno di avere strumenti che continuassero a garantire ai nostri connazionali il legame con la loro terra di origine.

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Infatti quando dissi loro che alcune associazioni avevano cessato la loro attività e che altre – compreso l’Usef – si dibattono in mezzo a mille difficoltà a causa del disinteresse di chi sta al governo e della scarsa incisività di chi è all’opposizione, il loro volto si rabbuiò. Dopo aver salutato tutti con l’impegno di esplorare le possibilità di future collaborazioni tra gli imprenditori e di approfondire alcune questioni, utili a questo fine, andai a cena con Virginia. Andammo da Squadrito, al barrio Santa Lucia (un quartiere con tantissimi locali tipici e bancarelle che vendono di tutto, impreziosito da bellissimi murales), un ristorante gestito da una famiglia di origini trapanesi, dove gustammo alcune pietanze della cucina siciliana felicemente rivisitate. L’indomani, all’ora concordata, arrivò la telefonata del tour operator che mi annunciò con quella solennità che caratterizza i sudamericani che non c’era niente da fare, che dovevo archiviare il desiderio di andare ad Akatama, “porqué est todos cerrado“, disse. Grande fu la delusione di non poter vedere il deserto più arido del mondo, di non godere del silenzio delle lagune, di non poter ammirare quei paesaggi lunari, di non imbattermi nella vicuña, uno dei due camelidi selvaggi del Sudamerica.

Saltato il programma prestabilito decisi di seguire il consiglio di Coralis che mi aveva suggerito di visitare il Museo della Memoria e la Fondazione Salvador Allende. Appurata l’impossibilità di visitare la Fondazione, chiusa per lavori di restauro e per l’allestimento di alcune sale, decisi di concentrare la mia attenzione, oltre che al Museo della Memoria, al Museo Violeta Parra e alla Chascona, un’altra perla del trio delle cosiddette “poesie immobiliari” di Pablo Neruda (la terza dimora è quella di Isla Negra, concepita come ricordo d’infanzia).

Le foto di tantissime vittime del golpe (molti intellettuali tra cui Victor Jara, un cantautore che pagò il suo impegno civile con la mutilazione delle mani e con la vita); il filmato originale dei momenti cruciali dell’assalto armato al Palazzo della Moneda; gli strumenti di tortura; gli oggetti realizzati dai detenuti per coltivare le proprie inclinazioni e tenere vivi i ricordi e gli affetti; i disegni “del dolor de los ninõs” e gli occhi umidi di pianto di molti visitatori mi provocarono commozione, turbamento e un senso di profonda frustrazione.

Com’è facile immaginare il mio stato d’animo non era dei migliori quando varcai l’ingresso del luogo dove è custodita la memoria, il patrimonio visuale, poetico e musicale di Violeta Parrà, con la documentazione sulla sua vita e sulle sue opere. Guardare però dal vivo le opere pittoriche della grande artista cilena, i suoi manufatti realizzati mettendo insieme stoffe multicolori, ascoltare le sue canzoni dense di phatos per la fatica e la sofferenza de los trabajadores fu l’antidoto più efficace al malessere che aveva pervaso il mio stato d’animo.

L’indomani con Virginia – che si era offerta di accompagnarmi con la sua macchina e a farmi da guida – andammo alla Valle del Maipo, una zona particolarmente fertile, irrigata dalle acque del fiume omonimo dove nascono i migliori vini del Cile. Visitammo la Viña Santa Rita, un’azienda che vende i suoi vini d’alta fascia in 75 nazioni e il bellissimo museo annesso, dove si possono ammirare tantissimi pezzi pregiati di arte pre-colombiana e post occupazione spagnola. Lasciata la rotta del vino visitammo un’azienda agricola gestita dai consuoceri di Virginia dove con la coltura idroponica si producono tutti i tipi di insalate e pomodori. Una tecnica – mi spiegano – grazie alla quale la coltivazione avviene fuori dal suolo: la terra è sostituita da un sub-strato inerte e viene nutrita con una soluzione di acqua mista a dei composti minerali necessari. Una tecnica conosciuta dagli antichi egizi, dal popolo atzeco e praticata anche nella creazione dei giardini pensili nell’antica Babilonia.

Mi incuriosisce visitando l’azienda (che impiega in tutte le fasi della produzione oltre 120 lavoratori) la presenza di tanti uomini e donne di colore, dalle sembianze non assimilabili ai cileni. Chiedo se gli indigeni si sentono defraudati del loro lavoro e se c’è conflitto. I consuoceri di Virginia, che sprigionano serenità, mi dicono che le autorità favoriscono l’assunzione del 15% di immigrati, però visto che non c’è nessuna penale loro ne hanno assunto più del 20 per cento. Aggiungono: “Gli aitiani e i peruviani sono ottimi lavoratori, sono allegri, sanno fare squadra e sono rispettosi dei ruoli, quindi che pretendere di più…”

Infine con un sorriso appena accennato mi dicono che l’unico problema di possibile contrasto tra cileni e immigrati è l’odore della pelle di quest’ultimi: se non si fanno la doccia una volta al giorno è impossibile stargli vicino e questo per gli indigeni è insopportabile. Concludiamo la giornata con una veloce escursione a casa di Graciela Cordova, consuocera di Virginia e moglie di Felix Maruenda, un grande scultore, scomparso da qualche tempo, le cui opere sono esposte in tanti musei e in tante città del Cile e dell’America del Sud. Lo spessore artistico del personaggio e la sua vicenda umana richiederebbero un articolo a parte: dico solo che la visita al suo atelier mi ha rubato il cuore.

Leggi la prima e la seconda parte del reportage

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