Reportage esclusivo: Cile, a Sud di nessun Nord

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Arrivo a Santiago del Cile la mattina della seconda domenica di febbraio, dopo quattordici ore e quaranta minuti di volo. L’unica nota positiva di questa lunga traversata è stata quella di sorvolare le Ande senza le turbolenze incontrate nei precedenti viaggi, che hanno fatto ballare gli aeroplani e minato le mie certezze.

La città non si è ancora svegliata del tutto: ha ritmi lenti, più umani e meno stressanti di quelli che di solito caratterizzano una metropoli dove si concentra il quaranta per cento dell’intera popolazione del Paese. Nella Terra andina sono state scritte pagine importanti della storia d’Italia: da quelle che raccontano le peripezie dei primi emigrati che scelsero di trasferirsi in una terra lontana e inesplorata (quelli che raggiunsero il cosiddetto Paese dei poeti dopo che si era liberato dalla colonizzazione spagnola non erano giovani in condizione di estrema povertà, ma navigatori e abili commercianti che videro il Cile come il luogo ideale dove costruire il proprio futuro), a quelle pagine che narrano dei primi giorni del golpe del generale Pinochet, quando la nostra ambasciata accolse – ricorrendo a una serie di sotterfugi e di veri e propri atti di eroismo – tantissimi cileni che scappavano dal pericolo delle persecuzioni e delle torture e dalla possibile morte.

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Dalla nostra comunità discendono ben due presidenti della Repubblica (Arturo e Jorge Alessandri) e tantissime personalità: da Hortensia Bussi, moglie di Salvador Allende, a ricercatori, medici, economisti, industriali, giornalisti, amministratori della giustizia. Il Cile è una lingua di terra lunga e stretta che si estende per oltre quattromila chilometri, che va dalle sabbie di Akatama – il deserto più arido del mondo – al freddo gelido della Patagonia e del Pacifico, dominato dalla Cordigliera delle Ande.

Dopo aver dormito qualche ora e smaltito un po’ di stanchezza esco per incontrare Mario, un giovane conosciuto tramite Facebook che da quasi un anno si è trasferito in Cile. Attraverso il Paseo Ahumada, insolitamente quasi deserto, e mi reco a Plaza de Armas dove abbiamo appuntamento. Come concordato Mario mi aspetta al bar “Marco Polo” di fronte alla grande scultura Mapuche. C’è un caldo secco, decidiamo di sederci e ordiniamo due birre ghiacciate. Mario non mi dà neanche il tempo di fare qualche domanda di circostanza, parte subito come un treno e mi dice: “Non sono il solo ad aver scelto di trasferirmi in Cile, qui da quasi due anni arrivano giovani laureati e imprenditori perché questa è una nazione con una buona stabilità politica, con una crescita economica che sfiora il quattro per cento, con una pressione fiscale contenuta, con un sistema bancario forte e privo di quel fardello di sofferenze che caratterizza le nostre banche, disponibile a valutare – al massimo nell’arco di una settimana – qualsiasi progetto imprenditoriale che viene loro presentato anche da soggetti provenienti da Paesi stranieri. Qui è anche possibile svolgere un lavoro dipendente e avviare nel contempo un’iniziativa imprenditoriale, senza avere l’obbligo di versare, anche per l’eventuale attività in proprio, i contributi pensionistici e sanitari. E per quando riguarda i giovani – che da noi non hanno speranza – se sono in possesso di lauree specialistiche e/o di master di secondo livello trovano porte spalancate ovunque”.

Gli faccio tre quattro domande per capire meglio, e lui con pazienza mi spiega entrando anche nei minimi dettagli. Dopo quasi due ore di conversazione mi lascia perché deve vedersi con la sua ragazza. Andando via quasi con rabbia mi dice: “Qui non c’è un Sud arretrato e privo di servizi e un Nord opulento e con un alto livello di qualità dei servizi, come da noi, questo è un Paese fondamentalmente unito… adesso mi scusi, debbo proprio scappare, arrivederci”. L’amaro in bocca che mi lascia quella conversazione mi toglie pure l’appetito. Mancano cinque minuti alle sei del pomeriggio. Il sole è ancora alto e fa molto caldo. Cambio programma: non vado più al Mercado General a mangiare un plato de pescados, decido di salire al Cerro di San Cristobal per prendere un po’ di fresco. Il Cerro San Cristobal è una collina molto suggestiva, un luogo della spiritualità, da dove la grande statua del Santo con le sue braccia aperte domina e protegge gli abitanti e il visitatore può godere una meravigliosa vista della città e delle cime delle Ande.

Al bar del ristorante dove mangiucchio qualcosa c’è il wi-fi; mi permettono di utilizzarlo per mezz’ora. Chiamo Rafael, il tour operator che ho incaricato di organizzarmi il viaggio a San Pedro di Akatama. Mi risponde: “Sĕnor todos cerrado, non podemos ilegar por qué grande inundación, me entende amigo ? Yo te ileama mércole a las nueve de la manâna , discúlpe e adios amigo”. Contrariato da quella comunicazione prendo il tram verticale e scendo giù. Proseguo a piedi passando quasi accanto alla “Chascona”, una delle tre ville museo del grande poeta Pablo Neruda – che andrò a visitare nei prossimi giorni – attraverso Piazza Italia e imbocco L’Alameda, una arteria larga e lunga parecchi chilometri.

Ai lati della strada una grande umanità è impegnata a vendere ogni genere di mercanzia, ad arrostire spiedini, a scaldare embanades e friggere banane. Stanco ancora dal viaggio e dalla lunga camminata e un po’ nauseato da tutti quegli odori decido di andare a dormire, non solo perché temo qualche brutto scherzo dal fuso orario, ma anche perché domani a Valparaiso mi aspetta… la Sebastiana. E quella si sa… se non sono puntuale… Ma di questo incontro vi racconterò nel prossimo articolo.

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