Nella stanza dello psicologo. A proposito di femminicidio e violenza di genere

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Tra di noi regnava una profonda solitudine

una forza d’inerzia

 una sintonia imperfetta.

 Quel pomeriggio eri un tutt’uno col divano grigio

  l’avrei dovuto già capire sin dal primo incontro

(Carmen Consoli)

Nell’anno che ci siamo lasciati alle spalle, il 2018, secondo le statistiche ogni 72 ore è stata uccisa una donna.

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Il termine che viene utilizzato per descrivere questo delitto è quello di “femminicidio”, una parola entrata nel lessico italiano solo a partire dal 2001. Prima di questa data era utilizzato il termine “uxoricidio”, dove “uxor” dal latino moglie, stava ad indicare generalmente l’uccisione di una donna in quanto moglie. Con il termine femminicidio, s’intende invece l’uccisione della donna in quanto donna. Ma dopo questa breve premessa etimologica, cerchiamo di comprendere alcune dinamiche che risiedono in questi delitti.

Ritengo opportuno rilevare che, la maggior parte di queste donne, non sono state uccise per mano di un estraneo, di un criminale, di un ladro, di uno squilibrato, e così via. Niente di tutto questo, che nell’immaginario collettivo, continua a suscitare paure e timori, al punto da erigere inutili barricate ideologiche contro il diverso che ci turba, rappresenta la mano armata dell’omicida, in quanto nella maggior parte dei casi di femminicidio ad uccidere sono le persone più vicine sentimentalmente alla vittima. Infatti, quasi tutte queste donne, sono state uccise dai loro rispettivi mariti, fidanzati, conviventi diventati “ex” o in procinto di esserlo.

UN ORRORE “FAMILIARE” – La morte che questi uomini riservano alle loro donne può giungere all’improvviso come un arresto cardiaco (raptus, omicidio catatimico), o può essere la conseguenza di una lunga malattia sottovalutata spesso da istituzioni e familiari della vittima stessa (stalking). Paradossalmente, leggendo i giornali, guardando la tv, è ormai diventato quasi “familiare” sentire di un delitto che avviene all’interno della sfera “familiare”. Ma i delitti familiari non sono tutti uguali, e non suscitano le stesse reazioni emotive nella gente. Infatti, secondo un mio punto di vista, quando la gente apprende di una notizia di cronaca nera, quale un parricidio o un matricidio, reagisce al fatto delittuoso etichettando l’omicida come “affetto da problemi psichici” “era depresso” “prendeva psicofarmaci” “era un tipo strano” ecc.

Diversa invece è la reazione che suscita nella gente la notizia di cronaca di un femminicidio, dove il dubbio inizia a diffondersi a discapito della donna, “forse se l’è cercata lei”, “lo poteva evitare”, “non era il caso di postare su facebook il suo nuovo compagno” “sembrava una brava persona” e così via. Ma inverosimile, questi dubbi non vengono espressi solo dagli uomini, ma anche dalle donne. Un’altra considerazione che voglio fare riguarda l’età delle vittime e l’area geografica, infatti, se fino a qualche anno fa ad essere uccise erano per la maggior parte dei casi donne molto giovani, adesso l’età media delle vittime si è alzata. Oggi tra le vittime, si contano, infatti, anche donne sulla cinquantina; e se fino a qualche anno fa, le cronache nere fotografavano un’Italia caratterizzata al nord da femminicidi e al sud da delitti mafiosi, adesso a mio modo di vedere non è più così, in quanto i femminicidi investono tutte le regioni del paese.

IL “SENSO DI POSSESSO” – Ho voluto riportare questa riflessione perché in tale fenomeno s’intrecciano aspetti culturali e aspetti psicologici, e per meglio comprendere non bisogna mai soffermarsi solamente su un solo aspetto, ma è opportuno guardare la problematica da diversi punti di vista. Ed ecco allora che possiamo iniziare a fare luce su alcune dinamiche, ed in una società a capitalismo avanzato come la nostra, il femminicidio deriva anche da un “senso del possesso” di un certo universo maschile su quello femminile. Espressioni apparentemente innocenti utilizzate dall’innamorato, come per esempio “la mia fidanzata”, “la mia donna” potrebbero dare l’idea di un senso del possesso che si manifesta anche con espressioni innocenti utilizzate da tutti noi quotidianamente. Ma in determinati casi, quando il senso del possesso viene meno, scatta la violenza, così il possesso prende il posto della relazione.

Alcuni studiosi parlano di “pulsione d’impossessamento” caratterizzata dallo spossessamento dell’Altro, e dove l’Altro viene trasformato in oggetto da possedere, da controllare e da neutralizzare. E di fronte ad un rifiuto, a un non ti appartengo, l’uomo potrebbe mettere in atto il gesto folle e violento per riprendersi quello che gli appartiene, e ristabilire quella dimensione fusionale primaria dalla quale forse non è mai riuscito a venirne fuori per affrontare quella posizione che in psicoanalisi viene definita depressiva e che permette di accettare, anche sia con dolore, la perdita e quindi riuscire così a elaborarla.

IL “CONFLITTO EDIPICO” – A proposito, è bene affermare che da un punto di vista psicoanalitico, i femminicidi, possono rievocare nell’uomo dei conflitti infantili non risolti di tipo “edipico” oppure di tipo “preedipico”. Nei delitti edipici generalmente è presente un terzo, l’amante, che potrebbe rappresentare quella minaccia paterna che accede alla sessualità della madre impedendo così al figlio di accedere alla sessualità materna. In un delitto edipico a essere ucciso generalmente è il terzo, in altre parole l’amante, che rappresenta e rievoca o quella minaccia paterna d’interdizione all’interno di una triade. Quello invece che succede nella maggior parte dei casi di femminicidi, è che il terzo non c’è quasi mai, infatti questi uomini hanno ucciso le loro compagne, in seguito alla minaccia di un abbandono, durante la fase di separazione o di divorzio. Nella tipologia di delitti “preedipici”, il terzo non c’è quasi mai, e dove a suscitare la furia omicida è quasi sempre quella minaccia di abbandono, che rievoca in questi uomini, vissuti fusionali con la madre intrisi di “identificazioni proiettive”, ovvero dei meccanismi difensivi primordiali che mirano al controllo dell’altro.

E allora ecco che quel rifiuto, quella separazione, ferisce quel narcisismo primario che il soggetto non può tollerare, riattivando quei fantasmi di abbandono intollerabili e che potrebbero portare il soggetto a ripristinarli a tutti i costi fino ad arrivare al gesto estremo dell’omicidio-suicidio. Vediamo anche cosa generalmente e inconsciamente rappresenta la donna per l’uomo all’interno di una coppia, dove parafrasando Freud, il matrimonio stesso non è sicuro se non quando la moglie sia riuscita a fare del proprio marito anche il proprio bambino e ad agire da madre nei suoi confronti”. Detto in parole povere nella donna si intrecciano due aspetti di un materno originario, esattamente “la madre delle cure” e “la madre portatrice di sessualità”, e quando uno dei due aspetti viene meno, per esempio spesso si sente dire che la donna “non provvedeva a preparare una buona cena” oppure “stava troppo tempo su internet” oppure quando la donna dichiara di non provare più nulla per lui, succede che aspetti di seduzione e abbandono s’intrecciano in quell’area densa di legami libidici e aggressivi che richiamano il primo oggetto delle cure.

Primo oggetto delle cure che forse non hanno mai avuto. Oppure che hanno interiorizzato in modo minaccioso o aggressivo, un primo oggetto delle cure che rievoca rifiuti, abbandoni o anche intrusioni. Tanti uomini infine vedono come una minaccia la realizzazione professionale della compagna, provando gelosia, invidia e odio, e per ristabilire quella pace interiore, bisogna a tutti i costi possederla ancora, tenerla in pugno, anche a costo della vita.

Il dottor Lo Cascio è uno psicologo clinico catanese. Per chiarimenti o domande, i lettori possono contattarlo in privato manando una mail a: siloc14@yahoo.it o tramite Facebook sulla pagina Silvestro Lo Cascio – Psicologo

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