Calatino, primi anni Duemila.
Michele vive a Scordia, la seconda città più popolosa del comprensorio dopo Caltagirone. Ha trentacinque anni, un discreto livello di istruzione, ha preso il Diploma e frequentato corsi di formazione professionale. Negli anni scorsi si è dovuto arrangiare a fare il magazziniere. Prima nell’impiantistica, poi nel settore degli agrumi. Michele è un gran lavoratore, ma l’ambiente non gli piace. Finalmente trova lavoro in un mobilificio:
“Quando sono arrivato mi hanno detto che l’azienda doveva essere ampliata e avrebbe assunto personale. Dopo mi sono reso conto dell’importanza del Patto. Sicuramente, per la realtà di Scordia questa è stata una buona opportunità, basta guardarsi attorno. Io, senza il Patto, sarei rimasto dove lavoravo”.
La testimonianza è riportata nel volume “Sfide e rischi dello sviluppo locale. Patti territoriali, imprenditori e lavoro in Sicilia”, (FrancoAngeli, 2007), che raccoglie gli studi dei professori Maurizio Avola, Anna Cortese e Rita Palidda. Proprio con la Palidda, ordinario di Sociologia Economica presso l’Università di Catania e coordinatrice di quella ricerca, affrontiamo un nuovo capitolo della nostra inchiesta sul territorio calatino. Un territorio che negli ultimi anni ha visto una drammatica crisi occupazionale, forse aggravata dall’illusione di facili business, a cominciare da quello dell’accoglienza. Ma facciamo un passo indietro.
LA STAGIONE DEL PATTO – Per risalire ad un modello di sviluppo efficace, da queste parti, bisogna tornare al Patto territoriale che negli anni Novanta e fino a metà degli Duemila diede lavoro a persone come Michele.
“I Patti territoriali vennero varati in tutta Italia a partite dal 1996 – dice la professoressa Palidda ad Hashtag Sicilia – anche nell’area del Calatino Sud-Simeto si mise mano ad vasto progetto di concertazione tra pubblici e privati per la riqualificazione ambientale e lo sviluppo dell’imprenditoria. Uno sviluppo che in questo territorio non poteva non coincidere con la valorizzazione dell’agricoltura, dell’agroindustria, del patrimonio culturale e ambientale. Azioni che si concretizzavano con il sostegno alla piccola e media impresa locale – ma anche di zone industriali come quella di Caltagirone – e con il rilancio del turismo. Cioè con le vere vocazioni di questo territorio”.
Una sorta di piano Marshall, insomma, che per alcuni anni sembra aprire al territorio nuove prospettive di sviluppo. “E’ chiaro che un piano di investimenti del genere mostra i suoi effetti sul medio-lungo periodo – precisa la professoressa Palidda – intorno al 2005, invece, la stagione del Patto si esaurisce per svariate ragioni. Ed anche i risultati conseguiti iniziano a disperdersi, riconsegnando l’area del Calatino Sud-Simeto ai suoi atavici problemi”.
Sono in tanti, oggi, a considerare il Patto un’opportunità mancata o sopravvalutata. Come diventerà, qualche anno dopo, il sistema dell’accoglienza nato intorno al CARA di Mineo. Un sistema che vive oggi una crisi profonda, che rischia di lasciare a piedi centinaia di lavoratori. Ma che anche nel suo momento di massimo splendore – al 26 agosto 2014 la struttura ospitava 3792 persone, il 37% di tutte le presenze nei centri governativi in Italia – non ha portato alcun beneficio occupazionale concreto per il territorio, malgrado i fiumi di retorica e inchiostro versati da politica e stampa. Anzi.
ALLARME OCCUPAZIONE – A mostrarcelo sono i dati raccolti dalla professoressa Palidda. “Non si può pensare che una struttura che occupa alcune centinaia di persone possa influire sulle curve occupazionali di un’area di circa centocinquantamila abitanti – dice la docente – certo la questione assume un peso quando il futuro di questi lavoratori è messo a rischio, in un territorio già provato da una drammatica crisi”.
Come si vede dal grafico, al crollo pressoché continuo dei tassi di occupazione nelle principali città del Calatino verificatosi a partire dal 2006 – quindi dalla fine del Patto in poi – non si oppone nessuna significativa variazione a partire dal 2011, data dell’apertura del CARA.
Da quel momento, al Patto territoriale se ne sostituisce virtualmente un altro, il Patto di sicurezza, che impegna i Comuni del Calatino – che tra poco costituiranno il consorzio per la gestione dell’ex “Residence degli aranci” – a “promuovere interventi sinergici tesi a favorire la sicurezza delle comunità locali ed il percorso di integrazione degli stranieri già regolarmente presenti sul territorio nonché dei richiedenti asilo provvisoriamente ospitati nel CARA di Mineo”. A firmare il documento, oltre alla Prefettura di Catania e ai Comuni interessati, l’allora Presidente della Provincia di Catania Giuseppe Castiglione.
Nei piani del Governo dell’epoca, presieduto da Silvio Berlusconi, il Patto per la Sicurezza dovrebbe essere una sorta di strumento di gestione del CARA. Che nei documenti amministrativi viene definito “una risorsa per l’economia del Calatino, sia per il numero di lavoratori assunti sia per l’indotto sul territorio”. E’ il sogno di un modello di accoglienza capace di produrre al contempo integrazione e posti di lavoro. Il Calatino si apre a questa opportunità, caldeggiata dalla classe politica locale e nazionale. Il tempo si incaricherà di smentire molte di quelle promesse.
A preoccupare, oggi, sono le sorti di centinaia di lavoratori che attendono di conoscere il proprio destino, insieme a quello di una struttura che ospita tuttora oltre millecinquecento persone che hanno diritto ad un trattamento civile. La cui carenza può dare la stura a manifestazioni come quelle dei giorni scorsi, con i migranti in strada a protestare contro i tagli dei servizi e il Governo. “Le politiche securitarie finiscono per avere effetti perversi – conclude la professoressa Palidda – per i migranti, in termini di devianza e lavoro nero; per i locali, di assistenzialismo e precarietà”.
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