Dianelys, la “dottora” – non perché moglie del dottore, ma perché dottora anche lei – ribadì il suo pensiero, anzi per dare più forza al ragionamento scandì le parole: “A Cu-ba è cam-bia-to tu-tto , tra-nne il si-ste-ma! E’ claro ahora?“, e si allontanò. Josè, che aveva assistito in silenzio alla performance della moglie, disse con tono solenne: “Nel mondo ci sono oltre ottanta milioni di persone che scappano a causa delle guerre, della carestia, delle malattie, della fame e per il desiderio di dare una vita migliore ai figli. A Cuba nessuno scappa per le malattie, perché abbiamo un ottimo sistema sanitario, né vanno via per la guerra, perché noi siamo in pace con tutti. Anzi, da cinquant’anni subiamo un embargo terribile che avrebbe ammazzato qualsiasi altro Paese. Da Cuba nessuno se ne va per fame, perché qui un piatto di riso e fagioli, un pollo o un fritos di pescados c’è per tutti. E non porqué el Gobierno fa ellos la caritad, ma porqué aquí trabajano todos. Certo… ci manca qualcosa… qualcosa che voi avete e noi non abbiamo, ma…”.
In quell’istante fece irruzione Dianelys con la colazione. Divorai le uova strapazzate e un enorme piatto di frutta fresca in religioso silenzio, come se dovessi combattere una fame atavica. Lo stesso fecero i miei commensali, ma, naturalmente, con maggiore tranquillità. Non avevamo finito di bere il caffè che arrivò Juanito, l’autista del taxi che, come da accordi presi dalla “dottora”, doveva portarmi in giro per la valle del Viñales per farmi vedere tutto in due ore e mezza. Viñales è una cittadina della provincia di Pinar del Rìo, situata nella parte occidentale di Cuba, da dove si arriva facilmente alle montagne della Sierra de Los Órganos. La strada principale, dove non mancano le buche, è fiancheggiata da case variopinte in legno dell’era coloniale. Tante le cose da vedere: la Casa de Caritades, un tortuoso giardino botanico pieno di orchidee e palme; la Cueva dell’Indio, un antico abitacolo indiano (sconsigliata a chi soffre di claustrofobia); il grande Murales della Preistoria, un’opera gigantesca di 120 metri per 80 realizzata dal cubano Leovigildo Gonzales, un allievo del grande maestro Diego Riviera; i Mogotes, che sono delle colline a forma di panettone create da una lenta e progressiva erosione, apparse dopo il crollo di grotte scavate dall’acqua. Un vero e proprio paradiso terrestre. Da visitare assolutamente anche le piantagioni di tabacco, dove i campesinos coltivano la terra, utilizzando – dicono per non disturbare la natura, quindi per “scelta” – attrezzi agricoli trainati da buoi.
In una di queste aziende ci accoglie Pedrito, il quale, dopo averci fatto visitare il luogo dove vengono poste ad asciugare le foglie di tabacco ci conduce in un piccolo patio dove campeggiano il ritratto del Ché e una bandiera cubana. Attorno a un lungo tavolo sono già seduti una coppia di inglesi e due americani. Pedrito estrae da un cassetto un po’ di foglie di tabacco e confeziona, seduta stante, alcuni sigari; accompagnando quella dimostrazione con un discorso in inglese, di cui capisco solo che si tratta di un procedimento assolutamente naturale in cui non c’è niente di chimico. Dopo quella breve dissertazione prende un sigaro, gli taglia la testa, lo intinge nel miele e me l’offre. Io rifiuto dicendo che non fumo, lui insiste, ma di fronte al mio nuovo diniego chiede agli altri chi vuol fumare, tutti rispondono affermativamente. Distribuisce i sigari e ci dice che li intinge nel miele proprio come faceva Chè Guevara, il quale essendo asmatico trovava sollievo fumando il sigaro intinto nel miele o nel cognac. Finita l’escursione, fatta alla velocità della luce, ci fermiamo a bere un mohito e, mentre aspettiamo che ci venga servito, chiedo a Juanito se è mai uscito dal suo Paese. Questi mi risponde : “Si, con la mia ex ragazza, una romana, con lei sono stato a San Vito lo Capo“, e mi decanta la sabbia bianchissima, il mare colore cobalto e, soprattutto, il couscous. E aggiunge, anticipando la mia seconda domanda, che da Cuba non ha nessuna voglia di andarsene. Gli chiedo: “Perché in una località così importante come Viñales, che ogni anno richiama milioni di turisti, la strada principale è piena di buche e quelle che si dipartono da questa sono tutte in terra battuta, con la conseguenza che quando piove sono impraticabili?”. Juanito mi risponde senza nessuna remora che la colpa è del Governo, del presidente che – a suo dire – è una emanazione di Raul e chiude il discorso dicendo che con Fidel era diverso, perché lui era più vicino al popolo. Quando do a Juanito i 20 euro pattuiti gli chiedo, a bruciapelo, cosa invidia agli italiani. Mi risponde: “Nada … sólo l’aire acondicionado a casa e los carros comodo“. Saluto velocemente la “dottora” e salgo sul taxi collectivo dove trovo già sedute nei sedili posteriori due persone, una coppia di americani. Il nostro autista, come se avesse il peperoncino in quel posto, parte a razzo. Naturalmente come può partire una vecchia 124 (Lada) che ha sul groppone una trentina d’anni.
Il tratto di strada che congiunge Viñales all’autopista è pieno di curve e in alcuni tratti è anche dissestato, ma il nostro tassista corre a rotta di collo come se dovessimo sfuggire a qualche catastrofe. L’americano – che per tutto il viaggio ha tenuto la mano della sua compagna – è terrorizzato, mentre lei sembra divertita perché a ogni mia battuta – che faccio in un misto di spagnolo e italiano – ride di gusto. Arrivati all’autopista, quella che da noi si chiama autostrada (con la differenza che qui non c’è un autogrill ogni 30 chilometri, ma soltanto uno in un tratto di 150 chilometri, non ci sono gard rail, la segnaletica è ridotta all’essenziale e soprattutto è aperta a tutti i mezzi di locomozione: bici, moto, sidecar – qui ce ne sono ancora tanti -, trattori, calessi, cavalli e naturalmente pedoni, presumo in quanto dotati di gambe che – lo ricordo a me stesso – sono il mezzo di locomozione più antico), ecco, giunti all’autopista il nostro eroe spicca proprio il volo.
Faustino, questo il nome dell’emulo di Louis Hamilton, mi lascia davanti al teatro Alicia Alonso. All’Havana c’è molto caldo, quindi prima di andare in albergo passo dal Floridita, uno dei sette bar più famosi del mondo, il favorito di Ernest Hemingway, dove con fatica – considerato il grande flusso di persone – conquisto un sublime daicarì , una sorta di granita a base di rhum. Un po’ stanco e accaldato, lascio il Floridita mentre all’angolo tra il Palacio della poesia e l’Avenida che scende verso piazza delle armi si esibisce una orchestra di giovanissimi musicisti seguiti con interesse da una folla di persone – gran parte turisti –, che si ingrossa sempre più. Passo per il museo della Rivoluzione e mi chiedo: ma a Cuba il Socialismo è un’utopia riuscita? La risposta – la mia naturalmente – la troverete nella terza e ultima parte di questo reportage.
Fine della seconda parte