La delibera di dissesto finanziario, approvata dalla sezione controllo della Corte dei Conti, nei confronti del Comune di Catania, per me non è stata affatto un fulmine a ciel sereno. Infatti, senza voler gettare la croce su tizio o su caio, non possiamo dimenticare il fatto che negli ultimi cinque-sette anni la questione ha fatto capolino almeno un paio di volte l’anno, in particolare alla vigilia dell’approvazione da parte del Consiglio comunale degli strumenti finanziari.
Un certo stupore può essere giustificato solo dalla scarsa enfasi che i media – quasi tutti – hanno dato delle conseguenze dell’eventuale default finanziario, forse per non apparire schierati con chi amministrava la città o con chi faceva opposizione.
In attesa di conoscere i motivi che hanno spinto la Corte dei Conti ad approvare la delibera anzidetta, mi sembra opportuno ragionare sulla genesi di questa particolare ciambella di salvataggio; sul perché la quasi totalità dei comuni in dissesto è concentrata nel Sud Italia; su chi paga il conto e sulle conseguenze che ricadono sui responsabili
del default finanziario.
L’istituto del dissesto venne previsto per legge nel 1989 ed è stato utilizzato sinora 588 volte. La crisi economica degli ultimi anni, i tetti di spesa imposti dal Patto di stabilità, la riduzione dei trasferimenti statali e regionali ai Comuni sono state alcune delle cause che hanno indotto gli amministratori a farsi approvare il dissesto dai Consigli comunali.
Le cause del default finanziario spesso non sono riconducibili solo a incapacità amministrativa o a scelte dissennate di amministratori locali, ma anche alle condizioni particolari in cui versano alcuni territori. La prova di questa asserzione è data dal fatto che l’82 per cento dei Comuni che hanno dichiarato una situazione di dissesto è, appunto, nel Sud (488), in particolare in Calabria (222), Campania (193), Sicilia (107), Puglia (68), ecc.
Ciò anche perché nel Mezzogiorno ci sono meno risorse, minori entrate fiscali, una percentuale elevatissima di morosità nel pagamento delle imposte locali e perché Comuni svolgono spesso una funzione di ammortizzatore sociale, assumendo – come è accaduto – precari e lavoratori socialmente utili che pesano sui bilanci comunali.
Ma che significa per il Comune la dichiarazione di dissesto? Significa il fermo delle azioni esecutive sui propri debiti; lo sblocco dei pignoramenti; lo stop a interessi per crediti e debiti; il divieto a chiedere mutui. Ma anche restrizioni a nuovi impegni di spesa sui servizi e l’aumento delle imposte locali.
Quindi il conto del dissesto lo pagano i cittadini, i dipendenti comunali e le imprese che vantano crediti per lavori eseguiti e/o per forniture di servizi fatti. Infatti in una situazione di dissesto finanziario i cittadini devono “accontentarsi ” di servizi scadenti e di infrastrutture vetuste.. I dipendenti, in caso di eccedenze di personale derivante da un rapporto non corretto tra popolazione residente e numero dei dipendenti, possono essere obbligati a ricollocazioni, a eventuali prepensionamenti e al blocco delle assunzioni. Infine, per quando riguarda le imprese, queste se vogliono incassare subito il loro credito devono accettare una somma tra il 40 e il 60 per cento oppure aspettare la fine del dissesto per rivendicare l’intera somma.
Ecco perché negli ultimi 10 anni sono fallite 5.000 aziende per ritardati pagamenti degli enti pubblici. Emolte altre imprese purtroppo rischiano di subire la stessa sorte, in considerazione del fatto che nei Comuni ci sono oltre 9 miliardi di euro di debiti in sospeso.
Naturalmente non mancano i Comuni virtuosi che pagano imprese e fornitori nei tempi previsti, ma gran parte di questi sono concentrati nelle regioni autonome del Nord.
Ma quali sono le conseguenze per i responsabili del tracollo finanziario?
La conseguenza per costoro è una sola: il divieto a candidarsi per 10 anni alla guida degli Enti Locali. Non è poco, ma certamente non è neppure troppo.