Il Decreto Legge Dignità approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 luglio, dopo essere stato annunciato come una sorta di panacea in grado di curare tutti i mali di cui soffre l’Italia, ha suscitato tantissime reazioni: alcune di compiacimento, altre di critica, talvolta anche particolarmente aspra.
I propositi del ministro Luigi Di Maio – che si è assunto la paternità del decreto – sono quelli di intervenire su tre temi: il mercato del lavoro, il fisco e la delocalizzazione.
Relativamente al primo tema, il Decreto si propone di bloccare i licenziamenti selvaggi aumentando del 50% l’indennizzo per i lavoratori ingiustamente licenziati; nonché di stanare ed eliminare gli abusi dei contratti a tempo determinato e favorire quelli a tempo indeterminato. Per raggiungere questo obiettivo, i contratti a termine potranno durare massimo 12 mesi, in caso di ulteriore rinnovo servirà una causale specifica che spieghi il motivo per il quale il contratto non si trasforma a tempo indeterminato. L’ulteriore proroga (rispetto agli attuali 36 mesi) sarà possibile per altri 12 mesi, quindi al massimo si arriverà a 24 mesi. Per ottenere la proroga occorre, però, dimostrare che la richiesta è dettata da ragioni temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, o ragioni connesse ad incrementi provvisori, significativi e non programmabili. Oltre all’obbligo di indicare la causale, l’impresa deve farsi carico anche di un costo aggiuntivo pari allo 0,5% per contributi obbligatori. Mediante questo marchingegno il Governo pensa di debellare o quantomeno di arginare i contratti a termine e di indurre le aziende ad assumere con contratto a tempo indeterminato. Io penso, invece, che l’obbligo di reintrodurre l’indicazione delle causali nella richiesta di proroga farà aumentare il contenzioso e bloccherà quel processo virtuoso che, ad esempio nell’artigianato, con l’eliminazione dell’obbligo anzidetto ha fatto crescere l’occupazione del 12,1%.
Relativamente al fisco, i propositi originari del Governo erano quelli di abolire lo spesometro e il redditometro e di iniettare nei meccanismi fiscali una massiccia dose di semplificazione per rendere la vita di imprese e cittadini meno tribolata. Di tutto questo e del proposito di anticipare la Flat Tax, però, nel Decreto non c’è traccia. In materia di fisco c’è solo la revisione del redditometro e la cancellazione del trattenimento diretto dell’IVA da parte dello Stato nei rapporti con i professionisti.
Infine, con riferimento alla delocalizzazione, il Decreto prevede, nei confronti di quelle aziende che dopo aver beneficiato di contributi statali scappano dall’Italia, sanzioni particolarmente severe che consistono nella decadenza del beneficio concesso con la conseguente restituzione delle somme eventualmente percepite con interessi maggiorati sino a 5 punti percentuali e, inoltre, sanzioni pecuniarie di importo da due a quattro volte quello del beneficio fruito.
Altra norma contenuta nella bozza del Decreto Legge Dignità è quella riguardante il divieto di pubblicizzare le scommesse e le sponsorizzazioni su tutti i giochi che prevedono vincite in denaro.
Ai fini di una valutazione corretta del Decreto, scevra da logiche di schieramento politico, c’è da dire, ad esempio, in ordine ai problemi del fisco e del contrasto alle ludopatie che le risposte individuate sono molto timide, anche se si muovono in una direzione condivisibile. Mentre le ricette indicate per frenare il ricorso ai contratti a termine mi sembrano sbagliate, perché non tengono conto di alcuni dati oggettivi. Che consistono nel fatto che in questi anni le imprese italiane hanno dovuto abituarsi a lavorare, produrre e distribuire, contando su cicli della domanda sempre più brevi, di intensità limitata, e soggetti a forti variazioni.
Un aspetto questo che non riguarda solo quelle aziende che operano sul mercato interno, segnato da aumenti dei consumi limitatissimi, ma anche quelle aziende che esportano perché la domanda internazionale è appesantita dagli effetti dei dazi,della possibile guerra dei cambi valutari e dall’andamento dei prezzi delle materie prime (il barile del petrolio in sei mesi è aumentato del 30%). Nè tengono conto della tassazione opprimente che grava sulle imprese.
In un contesto come quello sommariamente tratteggiato penso che le misure individuate per arginare il ricorso al contratto a termine non servano nè a stabilizzare il lavoro, nè a far crescere l’occupazione
L’ultima notazione riguarda la ricetta contro la delocalizzazione. Personalmente non ho dubbi sulla esigenza di penalizzare quelle imprese che si muovono nella logica del “mordi e fuggi”, vale a dire di fruire dei benefici statali e poi trasferire gli impianti altrove. La risposta individuata dal Decreto però rischia di essere percepita come un condizionamento della libertà di impresa, un freno alla possibilità di cogliere qualche opportunità e, di conseguenza, rendere meno attrattiva l’Italia agli investitori esteri.
Ciò perché se un’azienda per cogliere un’opportunità o per realizzare una economia di scala ha bisogno di spostare altrove un pezzetto della sua produzione deve poterlo fare o deve essere incentivata a non farlo, cosa diversa è invece se trasferisce tutta la produzione, tutto lo stabilimento, in questo caso non ci può nè ci deve essere nessuna indulgenza.
Poiché considero positivo che il Governo si sia posto il problema della precarietà del lavoro e della semplificazione degli adempimenti fiscali e abbia manifestato la volontà di combattere la delocalizzazione selvaggia, auspico che il Parlamento trovi un punto di equilibrio tra le aspettative dei precari e le esigenze delle imprese; che, ricordo a me stesso, non sono mucche da mungere, ma soggetti dinamici che operano per promuovere lo sviluppo dei territori e per creare lavoro.