Fondi europei, se l'erba del campo del vicino è più buona forse conviene andare lì a…

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Quasi tutti i media hanno scritto dell’utilizzo “improprio” dei fondi europei, dei ritardi nella certificazione della spesa, dei soldi non impegnati e, di conseguenza, restituiti a Bruxelles.

Alla luce di questa abbondante pubblicistica con questa nota, piuttosto che insistere su questi aspetti, cercherò di individuare le cause reali di questi misfatti e di indicare i possibili rimedi. Quindi non mi attardo ancora sui ritardi: aggiungo solo – se questo può consolare qualcuno dei responsabili dell’andazzo anzidetto – che dietro la lavagna dei cattivi c’è anche l’Italia, la quale con una percentuale di utilizzazione delle risorse europee inferiore al 9% si attesta sotto parecchi Paesi, tra cui la Polonia che ha una percentuale di utilizzo del 37%, quattro volte in più del nostro Paese, la Spagna e la Grecia.

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La Sicilia, oltre ai ritardi fatti registrare nelle programmazioni precedenti, ha dovuto restituire 117 milioni di euro della programmazione 2007-2013 a cui si aggiungono altri 380 milioni che dovranno tornare indietro a causa del cattivo utilizzo delle risorse di Agenda 2000.

Riguardo la programmazione vigente c’è da dire che la Sicilia occupa l’ultimo posto nella graduatoria dell’utilizzo delle risorse europee; infatti su una dotazione di 4,5 miliardi sono stati impegnati 2 miliardi e 500 milioni, ma sono stati spesi e certificati solo 16 milioni e 500 mila euro,lo 0,37 per cento.

E ciò nonostante la Regione Siciliana abbia un Bilancio per quasi il 90 per cento assorbito dalla spesa corrente, e possa destinare agli investimenti solo le briciole. La cosa paradossale è che la Regione, pur soffrendo per mancanza di risorse da destinare agli investimenti, rimandi indietro la bombola di ossigeno che le mette a disposizione l’Europa.

Le cause di questa situazione vengono individuate (da alcuni governanti di turno e da alcuni alti burocrati) nella farraginosità della burocrazia europea, nella rigidità delle norme e dei regolamenti emanati dalla Commissione e nel fatto che gli interventi destinati alle infrastrutture richiedono oggettivamente tempi di spesa più lunghi.

Due di queste cause le ritengo infondate, perché altri Paesi europei e altre regioni che appartengono al Belpaese hanno fatto e fanno molto meglio di noi, pur operando con la medesima burocrazia e con le medesime rigidità. Quindi noi facciamo peggio perché abbiamo una pessima capacità amministrativa. Che non discende da funzionari scadenti, bensì dalla situazione di instabilità (in 10 anni alla guida della Regione si sono succeduti ben quattro presidenti), il cui frutto avvelenato è quello di dare la possibilità a ogni nuovo inquilino di Palazzo d’Orléans di avvicendare – secondo le proprie “sensibilità” – i vertici degli assessorati e dei dipartimenti, senza tenere conto che i nuovi arrivati per carburare nei nuovi incarichi hanno bisogno di tempo, di rodaggio. L’ultima delle cause, tra quelle indicate dagli amici del giaguaro, aveva invece fondamento con la programmazione precedente. Con quella vigente non più perché non si privilegiano più le infrastrutture.

Quali sono allora le cause vere? Innanzitutto la pessima capacità amministrativa – già accennata – che si manifesta non solo con l’abitudine di aggiungere nei bandi ulteriori vincoli e paletti a quelli già messi dall’Europa, ma anche con la scarsa propensione dei funzionari ad assumersi le proprie responsabilità; la qualità della programmazione, le cui scelte e obiettivi spesso sembrano calate dall’alto; infine la scarsa conoscenza delle misure e delle procedure di utilizzazione da parte dei potenziali destinatari. Ma che fare per evitare altri ritardi e non bruciare altri miliardi senza raggiungere l’obiettivo, che è quello di colmare la distanza economico-sociale tra la Sicilia e le altre regioni europee?

Il buonsenso suggerisce di fare come hanno fatto quelli che hanno ottenuto risultati migliori, vale a dire pascolare nel campo del vicino dove l’erba è più buona.

Interloquendo con qualche funzionario europeo e soprattutto con i dipartimenti delle Regioni dove si è fatto molto meglio, credo di aver capito che le buone prassi consistono:

a) Nella condivisione dei programmi e degli obiettivi da parte di associazione di categoria, Università, centri di ricerca, enti territoriali, coinvolti sin dall’inizio e non chiamanti solo a ratificare;

b) Nell’adozione di un programma che consenta di conoscere in tempo reale il grado di interesse delle misure e gli eventuali scostamenti dagli obiettivi prefissati, in modo da correggere, modificare o integrare le scelte fatte;

c) In un piano formativo rivolto ai potenziali destinatari, portato avanti da funzionari regionali, docenti universitari, esperti delle associazioni di categoria.

Infine, considerato che gli aiuti europei non sono solo quelli che discendono dalla programmazione regionale (POR), ma anche quelli gestiti direttamente dall’Europa a cui possono attingere le imprese che vogliono innovare e internazionalizzarsi, i Comuni grandi e piccoli, le Istituzioni e le associazioni culturali e ambientali, si potrebbe pensare ad una formazione e ad un’azione di sostegno di tipo professionale. Finalizzato alla redazione dei progetti e rivolto al personale dei Comuni, in particolare di quelli più piccoli, e a quei soggetti associativi sprovvisti di conoscenze e competenze in materia.

Niente di trascendentale, quindi: soltanto delle misure di buonsenso per nulla onerose sulle quali il nuovo governo regionale potrebbe e dovrebbe cimentarsi.

Questo però richiede la volontà di azzerare gli appetiti assistenziali e clientelari e far leva, invece, sui funzionari della Regione, sulle Università e sugli esperti delle associazioni imprenditoriali. Insomma, occorre puntare su quei soggetti che possano dare un contributo reale a superare i ritardi e a compiere quelle scelte che vadano incontro alle esigenze del mondo delle imprese, delle comunità territoriali e dell’associazionismo che opera nel campo della cultura e della tutela ambientale.

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