L’ultima sconfitta – in ordine di tempo – del Partito Democratico, con il conseguente passaggio dello scettro di comando di roccaforti rosse al centrodestra a trazione leghista, rischia di segnare un punto di non ritorno per la sinistra.
La bandiera del Carroccio sovranista e nazionalista non sventola più solo in tanti municipi del Nord, ma anche in Comuni dove la sinistra aveva posizioni fortemente egemoni, radicandosi ben al di sotto del tanto amato fiume Pò.
Aver tenuto Ancona, Brindisi, Teramo, Iglesias, Siracusa, conquistato in Sicilia (dopo Trapani al primo turno) Adrano ed essersi aggiudicati in Puglia dieci ballottaggi su undici dimostra che neanche per il PD tutto è perduto. A condizione però che questo partito, oltre a rinnovare profondamente i suoi gruppi dirigenti nazionali e locali attraverso una selezione che eviti una referenzialità di casta, ridefinisca anche la sua identità, edificando su questa una nuova unità interna. Una identità che coniughi l’impegno dispiegato in questi anni sulle unioni civili, sul testamento biologico, sullo ius soli, sull’accoglienza dei migranti, sulla riforma carceraria con il bisogno di sicurezza, di legalità e di protezione sociale dei cittadini, con gli interessi dei giovani privi di lavoro e dell’impresa diffusa.
Insomma se il PD ripartisse dai territori, smettendo di essere una sorta di campo di Agramante dove tutti sono in disaccordo su tutto, evitando nel contempo di discutere di contenitori e di formule magiche, e si concentrasse sui contenuti mettendo in campo i valori della sinistra – che sono quelli della dignità, della solidarietà, dell’eguaglianza e della giustizia sociale – sono convinto che potrebbe ancora avere un futuro.
Poiché non è vero che gli italiani non capiscono niente, e non è vero neppure che gli elettori di sinistra sono diventati tutti razzisti e senza cuore, il PD può ambire a riaprire la partita se saprà impegnarsi non solo sul fronte dei diritti civili, ma anche e soprattutto su quello dei diritti sociali, della sicurezza, della legalità e dello sviluppo.
L’esito dei ballottaggi – libero dal pressing delle liste del 10 giugno e dal forcing dei singoli candidati consiglieri – non ha sentenziato solo la bruciante sconfitta del PD, ha segnato anche la fine definitiva del voto di appartenenza. Ha confermato il trend favorevole del centrodestra sospinto dal protagonismo e dai temi posti da Salvini, primo tra tutti quello dei migranti; ha sottolineato la difficoltà del M5S ad affermarsi nelle competizioni amministrative; e, infine, ha evidenziato la crescita abnorme dell’astensionismo.
Un fenomeno, quello del non voto, che in tante realtà ha toccato picchi del 60 per cento, configurandosi come una vera e propria fuga dalla politica.
Archiviata quindi questa lunga campagna elettorale (per noi siciliani è iniziata a ottobre del 2017 con le elezioni regionali) c’è da augurarsi che tutte le forze politiche sia quelle che hanno perso, sia, soprattutto, quelle che hanno vinto e sono state chiamate a governare, abbassino i toni e la smettano di andare alla ricerca di pretesti per occupare la scena politica – per far parlare giornali e televisioni – concentrandosi, invece, ad affrontare le tante questioni che affliggono il Paese.
Gli oltre 5 milioni di italiani (1,2 milioni minorenni) che vivono in condizioni di assoluta povertà, i giovani senza lavoro che stanno perdendo anche la speranza, il Sud che si allontana sempre più dal Nord, le piccole e medie imprese che hanno resistito alla lunga crisi economica e che vorrebbero ripartire non chiedono polemiche inutili, altre chiacchiere o altri proclami. Finita la festa, gabbatu lu santu: chiedono di voltare pagina, di adottare provvedimenti concreti in grado di fare ripartire l’Italia e di tracciare una nuova rotta che cancelli o quantomeno riduca la distanza tra il Nord e il Sud dell’Italia.