Lavoro, ISTAT: Catania senza speranze. Il Sud arranca

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CATANIA – I dati ISTAT appena diffusi condannano ancora una volta la Sicilia che si conferma la terra con la più alta densità di disoccupazione. Il livello è di tre volte piu’ alto rispetto a quello del settentrione.

Il 19.4% del sud contro il 6.9% del nord: e a Catania la disoccupazione cresce ancora di 2 punti in controtendenza con tutte le altre città.

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Non è difficile individuare le responsabilità. Basta pensare alle condizioni in cui versa la zona industriale e alle leggi nazionali che penalizzano il mercato del lavoro e dell’economia. Nel territorio etneo, le aziende scappano per la mancanza di infrastrutture, servizi e di turnover generazionale.

Le politiche di coesione favorite dall’ Unione Europea sono rimaste senz’anima. Da anni non c’è concertazione tra il mondo della politica e le parti sociali. I sindacati confederali poco hanno fatto, forse, per favorire le lotte contro la depauperazione dei territori. I governi regionali e comunali, invece, non sono riusciti a proporre all’UE progetti validi per l’ottenimento delle risorse da investire nell’isola.

In questo contesto chi sarebbe capace di investire?

Dalle tendenze in atto, si legge che il Mezzogiorno resterà terra d’emigrazione e sarà interessato da un progressivo ulteriore calo delle nascite.

Queste inclinazioni, secondo le previsioni dell’ISTAT, implicherebbero per il Mezzogiorno una ulteriore perdita di oltre 5 milioni di abitanti tra il 2017 e il 2065.

Ad aggravare il quadro demografico meridionale contribuisce la continua emorragia di risorse umane, dovuta a molti fattori ma sicuramente anche all’insufficiente dotazione di capitale produttivo dell’area, che si traduce in una carente domanda di lavoro, che non favorisce l’impiego delle giovani generazioni formate nei percorsi di istruzione anche avanzati. Negli ultimi quindici anni, secondo il rapporto Svimez, sono emigrati dal Sud 1,7 milioni di persone a fronte di un milione di rientri, con una perdita netta di 716 mila unità: si tratta per lo più (72,4%) di giovani tra i 15 e i 34 anni e di laureati che costituiscono un terzo del totale (198 mila unità). 

Questa situazione, sopratutto al sud dove il lavoro se si trova lo si inizia a 30 anni, è destinata a peggiorare non solo a causa della staticità del mercato del lavoro, delle recenti politiche sociali messe in atto dal governo nazionale e dei bassi salari, ma anche dalla scellerata decisione di aumentare ancora l’età pensionabile.

Con la vecchia legge un “giovane” di 45 anni con oltre 20 anni di contribuzione, con il calcolo INPS aggiornato a oggi, andrebbe in pensione nel 2040 all’età di 69 anni!!!

Con una nuova modifica dell’età pensionabile pochissimi lavoratori in salute potrebbero godere della quiescienza!

Tali provvedimenti potrebbero rappresentare una beffa nei confronti dei lavoratori e delle loro famiglie. Già oggi, infatti, risulta impossibile per qualsiasi essere umano continuare a lavorare in fabbrica a 70 anni, sopratutto per chi opera a turni e svolge mansioni usuranti e/o pesanti.

Le aziende, infine, non potranno permettersi perdite di competitività e di performace a meno che non si trasformino in case per anziani.

Eppure la ricetta per rilanciare il lavoro e l’economia del paese sarebbe semplice: a livello nazionale basterebbe la decontribuzione per tutti i lavoratori dipendenti e l’abbassamento dell’età pensionabile per anticipare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro; in Sicilia, invece, servirebbero – oltre a politiche mirate – maggiori competenze e responsabilità da parte degli amministratori e di quei sindacati che si dicono maggiormente rappresentativi.

 

 

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