Tante sono le zavorre che appesantiscono il passo a cittadini e imprese mentre cercano di non farsi inghiottire dalla crisi – che al Sud continua a mordere – o di
agganciare la ripresa.
La pressione fiscale che schiaccia le piccole imprese (contributi, tasse, imposte dirette e indirette superano il 64 per cento: 25 punti percentuali in più rispetto alla media europea che è il 40,6 per cento); il peso di contributi e tasse sulla busta paga dei lavoratori, il cosiddetto cuneo fiscale, che si mangiano la metà dello stipendio; la burocrazia che rappresenta un vero e proprio macigno che ostacola la competitività delle imprese.
Infatti, secondo la Corte dei Conti, l’imprenditore medio italiano è costretto a dedicare solo agli adempimenti fiscali 269 ore lavorative l’anno. Scadenze e moduli costano alle aziende circa 33 giorni lavorativi.
Altre zavorre sono la corruzione ritenuta un pericolo mortale dal 60 per cento degli imprenditori: 20 punti in più del valore europeo; l’evasione fiscale che prospera anche a causa dell’alta tassazione, del peso eccessivo di una fitta selva di norme e di servizi inefficienti; l’abusivismo commerciale e le attività economiche sommerse che in Sicilia rappresentano il secondo settore produttivo.
A tutto ciò si aggiungono la lentezza della giustizia, i tempi necessari per avviare un’impresa, quelli per ottenere le licenze, impiegare i lavoratori, registrare una proprietà, ottenere il credito e le garanzie per proteggere gli investimenti.
Ostacoli questi che rendono l’Italia un Paese dove fare impresa è un’impresa impossibile. Ecco perché nella classifica stilata dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale l’Italia nel 2016 rispetto al 2015 perde sei posizioni, scivolando al cinquantesimo posto,terzultima tra i Paesi dell’Unione Europea.
L’Italia fa meglio solo di Grecia e Malta. Questo spiega anche il motivo perché non si intercettano investitori esteri: solo il 2 per cento dei quattrini stranieri finisce nel Mezzogiorno. I migliori risultati le aziende – secondo i massimi esperti di movimenti di capitali esteri – li registrano nei Paesi che presentono in assoluto i livelli più bassi di diseguaglianza sociale.
Regole e leggi trasparenti e uno Stato in grado di farle rispettare e di farle funzionare producono un clima più favorevole a fare impresa, più opportunità per le donne e più accesso a crediti e finanziamenti per i talenti creativi.
Intendiamoci, l’Italia non parte da zero, qualche passo avanti è stato fatto. Infatti nel 2017 abbiamo fatto pagare le tasse in modo più semplice, consentendo la deducibilità piena del costo del lavoro rispetto all’Imposta Regionale sulle Attività Produttive (IRAP) e sono stati aggiornati i coefficienti utilizzati per il calcolo delle imposte sugli immobili e la tassa comunale dei servizi nel 2015-2016. Purtroppo però il problema di fondo su cui siamo valutati è la velocità dei cambiamenti: gli altri partner, in un mondo globalizzato e concorrenziale, corrono di più e fanno più riforme a favore di chi fa impresa, di chi fa business.
A titolo di esempio la Francia, Paese simile per dimensione e popolazione all’Italia, che era al ventottesimo posto scende di una posizione, ma sostanzialmente tiene, mentre la Germania, altro Paese a cui rapportarci tra quelli OCSE, che era al quattordicesimo
posto in classifica perde tre posizioni, ma resta comunque attaccato al gruppo di testa guidato da Nuova Zelanda, Singapore e Danimarca.
Di tutti questi temi, che dovrebbero stare in cima ai pensieri di chi si candida a governare il Paese, nonostante manca poco più di venti giorni al voto, si continua a registrare un silenzio assordante,rivelando così che il tasso di conoscenza dei problemi è ai minimi storici.
Imprimere un’accelerazione vigorosa alla ripresa che tocchi anche il Sud è possibile se si corre, però, sulla strada delle riforme. A cominciare da quella del fisco (per ridefinire il rapporto tra Stato e cittadino e renderlo più trasparente ed equo) e della riduzione di tasse e contributi, oltre a quella per semplificare gli adempimenti amministrativi.
Una battaglia questa che non si vince approvando altre norme di semplificazione che poi restano sulla carta ma, paradossalmente, semplificando la semplificazione.
Si vince cioè attuando le leggi che esistono già, eliminando quelle inutili, superando la frammentazione di competenze e fidandosi un po’ di più degli imprenditori – che non sono soggetti pericolosi – ma gente che nonostante tutto si ostina a fare impresa ed a creare posti di lavoro.
Insomma non possiamo attraversare il mare stando fermi e fissando le onde.