L'Italia non è un Paese per giovani

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Che l’Italia non sia un Paese per giovani è acclarato; non solo perché l’età media sfiora i cinquant’anni, ma anche perché nel Belpaese non si hanno sbocchi occupazionali (espatriano oltre 100.000 persone l’anno, in maggioranza giovani tra 18 e 34anni, con titoli di studio e livelli professionali elevati) e il merito conta poco o nulla. Basti pensare che è diffuso il convincimento che per accedere a un concorso e per fare carriera i giovani debbano rivolgersi a qualche santo in Paradiso o debbano andare altrove.

I giovani oggi appaiono senza speranza perché non credono molto nella ripresa economica e non riescono a disegnare nè tantomeno ad immaginare il futuro. E se i giovani che sono il nostro futuro perdono la speranza come possiamo sperare nel futuro della società italiana? 

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In questo contesto non dobbiamo meravigliarci se gli ultimi sondaggi effettuati dagli istituti di ricerca rivelano che il 47,2 per cento dei giovani è orientato a disertare le urne, quando invece se decidessero di partecipare al voto diventerebbero il baricentro del consenso e potrebbero determinare mutamenti rilevanti nel panorama della rappresentanza politica.

Disaffezione nei confronti della politica e del voto che nasce dalla rabbia, dalla disillusione, dal sentirsi tagliati fuori dalla possibilità di programmare un futuro, di costruirsi una famiglia, di fare figli.

Purtroppo leggendo i programmi presentati dagli schieramenti e dai partiti che si presentano ai nastri di partenza delle prossime elezioni politiche questa terribile ombra che incombe sulla nostra società non sembra essere avvertita.

Eppure, oltre a tanti problemi, abbiamo un tasso di disoccupazione giovanile del 40,3 per cento, il doppio rispetto all’Europa.

Ciò nonostante non c’è una parola sulla esasperazione esistenziale che accomuna i giovani del Mezzogiorno costretti, nella migliore delle ipotesi, a barcamenarsi tra un lavoro a nero e uno a progetto senza alcuna garanzia sul futuro.

 Non si dice niente neppure sugli squilibri territoriali, forse perché viene considerato normale il differente sviluppo tra Nord e Sud, due parti della stessa nazione.

Il cuore di tutti i programmi batte quasi esclusivamente sul tasto delle tasse e della loro riduzione: il Centro Destra, oltre a proporre 1000 euro al mese per le pensioni al minimo insiste sulla cosiddetta flat tax, una tassazione forfettaria fissata al 23 per cento per famiglie e imprese, e sulla lotta all’immigrazione; i Cinque Stelle propongono la cancellazione di 400 leggi inutili, il reddito di cittadinanza, minime pensionistiche a 780 euro al mese, il taglio dei costi della politica e lo stop al business dell’immigrazione; il PD punta tutte le sue carte sulla riduzione del cuneo fiscale, sul taglio del costo del lavoro, su un assegno universale per i figli di chi percepisce un reddito inferiore a 100.000 euro e sullo jus soli per gli immigrati; Liberi e Uguali scommette sul l’eliminazione delle tasse universitarie, la cancellazione del jobs act e sul ripristino dell’articolo 18 per impedire il licenziamento senza giusta causa.

Quando si accenna al dramma dei giovani lo si fa solo per enfatizzare alcuni rimedi varati dal governo: il provvedimento denominato “Resto al Sud” – che garantisce a chi vuole intraprendere un’attività imprenditoriale nel Mezzogiorno un contributo a fondo perduto pari al 35 per cento e un finanziamento a tasso zero garantito dallo Stato – e gli incentivi a favore delle imprese che assumono giovani sotto i 35 anni.

Non sottovaluto affatto l’utilità e l’impatto che questi provvedimenti avranno quando entreranno a regime, ma li considero dei pannicelli caldi.

Ciò perché il provvedimento “Resto al Sud” nelle  previsioni più ottimistiche potrà creare 100.000 posti di lavoro nell’arco di cinque anni, mentre gli sgravi contributivi per le nuove assunzioni saranno utilizzati solo se le imprese hanno un mercato in crescita ( le aziende non assumono se sono in difficoltà o se fanno fatica ad allargare il loro mercato, anche se ci sono gli incentivi).

Le mie, forse, sono parole al vento, ma se si pensa che la questione giovanile e quella delle differenze territoriali si risolvano con questo tipo di misure e/o con il reddito di cittadinanza o di inclusione che dir si voglia si sbaglia. E di molto.

L’antidoto alla speranza perduta, alla fuga dai propri territori, alla sfiducia nella politica e nella possibilità di cambiare le cose con il voto è uno solo: il lavoro.

Quindi schieramenti politici e partiti farebbero bene a lasciarsi alle spalle polemiche e assurde promesse per concentrarsi unitariamente a trovare la soluzione al problema del lavoro.

Lavoro che si può creare solo percorrendo due strade: una è quella di immettere nella pubblica amministrazione nell’arco di un biennio 400.000-500.000 giovani; l’altra è quella di operare per una massiccia politica di investimenti pubblici finalizzati anche a recuperare il deficit di infrastrutture materiali e immateriali di cui soffre il Sud.

Insomma dobbiamo abbandonare la strada dei pannicelli caldi e delle mance e cambiare registro.

E sperare solo che quando ci decideremo a farlo non sia troppo tardi.

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