In Sicilia troppa povertà educativa che genera anche disoccupazione

Benedettini
Il monastero dei Benedettini a Catania
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SICILIA – Potrebbero essere una risorsa, una fonte di guadagno e una occasione di occupazione: i beni culturali, in Sicilia, però restano una eterna Cenerentola che attende il principe azzurro per avere il proprio riscatto. In tanti hanno provato a far calzare la scarpetta giusta ma spesso i papabili principi azzurri hanno dovuto fare i conti con la politica e la burocrazia che di certo non aiutano.

Solo alcuni numeri per capire quello che è lo stato dei Beni Culturali nella nostra regione:  la spesa media per beni culturali e servizi ricreativi tra il 2013 e il 2015 è stata di 553 milioni di euro, pari a 109,2 euro pro capite. Rispetto alla media nazionale, tra il 2009 e il 2015, si registra un gap di 786 milioni di euro nella spesa per beni culturali e servizi ricreativi. Bisogna annoverare anche una minore spesa in interventi di manutenzione, protezione e restauro: ciò, ovviamente, con il passare del tempo sta rovinando la bellezza dei 257 musei e istituti culturali presenti su tutta l’Isola: 175 musei e gallerie, 40 aree o parchi archeologici e 42 monumenti o complessi monumentali.

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Nel 2015, il numero totale dei visitatori ammonta a 5.238.357 (dato anno 2015). Con una quota significativa di stranieri, come si deduce dai dati relativi ai flussi turistici della regione secondo cui il 44,2% dei 4.321.491 turisti proviene dall’estero.

Investire in interventi di manutenzione, protezione e restauro dei beni culturali e ricreativi della Sicilia porterebbe probabilmente anche alla crescita di questo flusso di turisti.

Ma non solo: come fa notare Confartigianato “se fossero direttamente coinvolte le 20.861 imprese del territorio che si occupano di installazione di impianti, completamento e finitura di edifici, attività di conservazione e restauro di opere pubbliche e di servizi per edifici e paesaggio, di cui oltre la metà (55,8%), pari a 11.635 unità, sono artigiane, si aggiungerebbe un ritorno in termini economici per il tessuto imprenditoriale dell’intera Isola. Il recupero del 70% del gap di spesa, rispetto alla media nazionale, per l’acquisto di beni e servizi per il settore Cultura si tradurrebbe in Sicilia in 1.198 nuovi posti di lavoro nelle oltre 20 mila imprese che si occupano di installazione di impianti, completamento e finitura di edifici, attività di conservazione e restauro di opere pubbliche e attività di servizi per edifici e paesaggio (oltre la metà artigiane). Attivare questo meccanismo darebbe vita a un vero circolo virtuoso: più turismo e più occupati e più lavoro per le imprese della manutenzione, protezione e restauro, ma anche ricadute positive, per le 16.368 imprese artigiane dell’abbigliamento e calzature, agroalimentare, trasporti, ristoranti e pizzerie e bar, caffè e pasticcerie potenzialmente coinvolte da domanda turistica”.

Questa potrebbe essere una soluzione. E un’altra strada da percorrere potrebbe essere quella di affidare a privati, a cooperative di giovani, ad associazioni la gestione dei siti monumentali. Possiamo citare l’esempio etneo di Officine Culturali o quello palermitano de Le Vie dei Tesori. In quest’ultimo caso tutto è nato da un gruppo di giornalisti e operatori culturali di Palermo convinti che siano le persone a cambiare le città. E decisi a valorizzare il patrimonio materiale e immateriale della Sicilia mettendo a rete le sue migliori risorse.

Le Vie dei Tesori propone ai cittadini un’alleanza nel segno della cultura, della conoscenza, della riappropriazione degli spazi. E di contro, offre ai turisti la possibilità di visitare città tutte aperte, raccontate, percorse da passeggiate inedite, dense di nuove prospettive, di nuovi spunti di dialogo, di nuove forme di accoglienza.

A guidare Officine Culturali è, invece, Francesco (Ciccio) Mannino al quale abbiamo posto alcune domande.

La Sicilia è una delle regioni con il più alto numero di beni monumentali, molti dei quali però abbandonati o non fruibili: quale la ricetta per valorizzarli?

“Sarebbe bello avere una Benedetta Parodi del patrimonio culturale, ma ti posso garantire che nessuno ha una ricetta funzionante, perché esistono molte e diverse visioni sul suo ruolo. C’è chi pensa alla tutela e basta (ed è anche giusto, perché il patrimonio si usura); chi alla possibilità di metterlo a reddito, perché “è il nostro petrolio”; chi si preoccupa del valore che esso ha per le persone e le comunità che vivono nello stesso territorio. In questa ultima direzione c’è un documento molto importante del Consiglio d’Europa (Italia compresa) che si chiama “Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società” (detta più brevemente “Convenzione di Faro”). Il documento afferma che la conoscenza e l’uso dell’eredità culturale rientrano fra i diritti dell’individuo a prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità; e riconosce le comunità “di eredità” come «insiemi di persone che attribuiscono valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desiderano, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future». Io partirei da qui: in uno Stato che destina lo 0,28% del bilancio (previsionale 2018) ai beni e alle attività culturali, si può dire che questo diritto è garantito? Se è vero (ed è vero) che il patrimonio culturale è innanzitutto uno straordinario strumento che funge da lente per la comprensione del passato, chiave per una interpretazione consapevole del presente, e stimolo per una costruzione lucida del futuro, le risorse pubbliche da investire su di esso devono essere maggiori, e pensate per coinvolgere le comunità di riferimento attivamente e responsabilmente. La Sicilia è anche drammaticamente al primo posto tra le regioni italiane per Indice di Povertà Educativa (IPE), condizione che affligge un minore su tre (!!!), rendendolo incapace di comprendere un testo scritto. Siccome è comprovato che la partecipazione culturale (in Italia solo una persona su 4 partecipa pienamente alle attività culturali!) è uno degli ingredienti per contrastare la povertà educativa, questo mi sembra un buon motivo per aumentare e rendere più efficienti le risorse. Il patrimonio è portatore di tutto questo, sia nei piccoli dettagli e nei piccoli centri dell’entroterra quanto nei più grandi monumenti, nelle periferie quanto nei centri storici. Tutelarlo, renderlo comprensibile e accessibile, metterlo a disposizione delle comunità di residenti, city users e viaggiatori è sia un dovere  dello Stato che una importante sfida dei cittadini. Le sue implicazioni economiche sono importanti, devono essere pianificate (lo sappiamo bene noi, che manteniamo le nostre famiglie con l’economia che generiamo), ma non sono il primo scopo che un museo o un monumento devono assumere, altrimenti si rischia una alterazione del senso profondo del patrimonio”.

Come nasce l’esperienza di Officine Culturali?

“Officine nasce da un’idea semplice ma vitale per i suoi fondatori, che si basa sulla capacità di raccontare storie: vere poiché prodotte dalle ricerche e dallo studio; utili perché destinate ad aprire una comunicazione tra i luoghi e le persone che li abitano e li attraversano. L’idea era, e rimane, vitale poiché i giovani (oggi non più tanto giovani – dice sorridendo Mannino) che hanno intrapreso la strada dell’impresa culturale hanno visto nella fondazione di Officine Culturali il modo per restare nella propria città sviluppando capacità professionali del proprio settore di formazione e imparando con il tempo anche a diventare qualcos’altro. Officine Culturali, in fondo, è la storia di alcuni colleghi universitari che si sono trovati attorno ad un’idea ed hanno fatto impresa perché alle volte bisogna avere coraggio anche per restare, come è successo ad altri in Sicilia e in Italia.  Dal 2009 ad oggi i sacrifici non si contano più, ma possiamo dire di avere avuto oltre che delle buone capacità manageriali e anche alcuni partner solidi. Dal 2010 l’associazione Officine Culturali, grazie ad un partenariato con l’Università di Catania (non oneroso per l’Ateneo), si prende cura del Monastero dei Benedettini, oggi popolata sede universitaria nonché edificio di riferimento per la comunità locale, che vi si riconosce sempre più. L’associazione, nata nel 2009 dall’aggregazione di studenti e studiosi e oggi organizzazione non profit con 10 dipendenti a tempo indeterminato con CCNL Federculture, è impegnata nel rendere accessibile e comprensibile il patrimonio culturale attraverso forme inclusive e partecipative di mediazione e comunicazione sociale della ricerca scientifica, dell’intelletto e del lavoro umano. Oggi Officine Culturali, socio Federculture e membro dell’International Council of Museums (ICOM), svolge le sue attività tra il Monastero, il suo Museo della Fabbrica e il relativo Archivio, il Museo universitario di Archeologia, l’Orto Botanico, il Monastero di San Benedetto e il Museo Civico Castello Ursino. In questi otto anni Officine Culturali ha ritenuto imprescindibile la tutela del patrimonio culturale in quanto bene comune e la mediazione culturale e sociale tra il patrimonio e le comunità stesse. Non meno importante, il contrasto al fenomeno delle povertà educative è stato assunto tra gli obiettivi principali delle azioni realizzate. Tali finalità sono state perseguite grazie ad attività di ricerca e studio sul patrimonio culturale e i suoi possibili utilizzi, e sistemi di gestione ispirati ai modelli d’impresa pur senza finalità lucrative”.

I privati sono la risorsa per far conoscere le meraviglie della nostra terra?

“Solo se le regole sono chiare, ed è il soggetto pubblico (lo Stato, la Regione, i Comuni) a dettare la visione e la traccia su cui muoversi. L’esperienza dei soggetti privati nei luoghi della cultura viene da lontano (Legge Ronchey, 1993), e fa riferimento ai cosiddetti servizi aggiuntivi (Codice dei BBCC, 2004). Esistono tanti professionisti che operano nel mercato dei servizi aggiuntivi, organizzati quasi sempre sul modello domanda-offerta, in cui il privato – che ha l’onere della gestione – deve ridurre i costi e massimizzare i ricavi. Come si sposa tutto ciò con i diritti alla partecipazione sanciti dall’art. 9 della Costituzione e da tutti gli altri documenti internazionali? Un privato, se “costretto” nella gabbia delle regole del mercato, difficilmente potrà aprire agli esclusi o ai partecipanti deboli, come i minori e le famiglie a basso reddito, molte categorie di disabili, i nuovi cittadini. Potrà solo se lo Stato investe sul patrimonio intendendolo come un nuovo tipo di welfare, un welfare culturale. In questo le organizzazioni non profit (imprese sociali in testa), grazie anche alla recente riforma del Terzo Settore, possono essere un valido interlocutore. Attenzione, non si tratta di un gioco di parole per legittimare l’abuso dei volontari nel settore, ma solo l’evidenziare che organizzazioni che hanno prevalentemente finalità di interesse generale oggi sono maggiormente pronte ad assumere professionisti e assumersi responsabilità, purché si ragioni anche per i beni culturali in termini di pubblica utilità e non solo di profitto”.

Vi siete dovuti scontare con la burocrazia o la diffidenza?

“Sia con l’una che con l’altra, ovviamente. È normale, negli enti pubblici ci sono grandi professionisti e ottimi facilitatori (che significa solo fare funzionare la macchina amministrativa come dovrebbe), ed anche ottusi burocrati. Non dico nulla di nuovo, ma – visto che la politica è temporanea e l’amministrazione è permanente – mi permetto di suggerire che, ad ogni ondata di governo politico di una amministrazione ci si dovrebbe dare almeno l’obiettivo di una riforma migliorativa dei processi di gestione, intervenendo sui nodi e sciogliendoli: spostare l’asticella di un poco in avanti. Ma ciò significa turbare equilibri ancestrali, e spesso chi governa preferisce il consenso al cambiamento. Ma non sempre, e questo consente in alcuni casi (molti, devo dire) di incontrare amministrazioni e amministratori “smart”, convinti della finalità di pubblico interesse del proprio lavoro. Quelli sono i momenti in cui si riprende fiducia verso la PA”.

Cosa chiedereste a chi ci governa per migliorare questa terra e per consentire ai giovani di fare impresa?

“La Sicilia, regione da un lato con una forte domanda di bisogni sociali – espressi e non  – e dall’altro con un patrimonio culturale materiale e immateriale capace di sviluppare nuovi processi di coesione e inclusione sociale, dovrà rivedere i suoi obiettivi strategici e la missione del suo comparto culturale, affiancando alle indiscutibili ragioni di tutela e alle comprensibili ragioni di sviluppo economico una chiara visione di strategia culturale ad impatto sociale. Si tratta di rivedere i budget pubblici. Si tratta di dare vita a politiche che favoriscano la partecipazione culturale attiva e inclusiva. Si tratta di sostenere le professioni della cultura, le competenze e le imprese del settore. Si tratta quindi di attivare un percorso partecipativo con gli operatori del non profit culturale, ormai da anni schierati nelle trincee della fruizione e della produzione culturale, spesso lasciati soli nel contrasto alle barriere ma non per questo meno orientati ad allargare sempre più le maglie del coinvolgimento, della partecipazione culturale, dell’inclusione sociale e della ricerca e della sperimentazione scientifica, autonoma e di base. Gli strumenti ci sono: Standard di qualità del Sistema Museale Regionale; nuovo Codice del Terzo Settore, che entra con chiarezza nella regolamentazione del rapporto tra mondo non profit (anche culturale) ed enti pubblici, anche per ciò che riguarda la gestione di spazi e luoghi (D.Lgs 117/2017, art. 71);  nuova normativa sulle imprese sociali, che annovera tra le attività consentite anche quelle di gestione del patrimonio e delle attività culturali con finalità sociali (D. Lgs 112/2017, art. 2, commi f ed i); riconoscimento nazionale delle imprese culturali come soggetto di riferimento (Legge, 27/12/2017 n° 205, art. 1, commi 57-60); organizzazioni nazionali che curano tali temi da anni, individuando occasioni, proposte e finanche Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro di settore; organizzazioni culturali non profit del territorio. Insomma, gli strumenti ci sono: mi chiedo se c’è il coraggio di usarli, abbandonando qualsiasi forma di retorica e assumendo decisioni coraggiose, che possano però puntare ad un benessere sostenibile per chi vive questi territori”.
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