Venticinque anni fa in via Plebiscito gli spazi abbandonati dell’ex cinema Esperia venivano occupati da un gruppo di giovani: era il 16 maggio del 1992, e nasceva il Centro Sociale (in seguito Centro Popolare) Experia. Uno dei protagonisti di quell’esperienza è stato Ciccio Mannino, oggi dottore di ricerca in Storia Urbana. Mannino in un lungo post sulla propria pagina Facebook definisce l’Experia “uno spazio abbandonato recuperato e restituito alla città e all’Antico Corso che ha ospitato un laboratorio permanente di idee e di pratiche sociali“. Temi trasferiti oggi nell’associazione Officine Culturali, che si trova a poche centinaia di metri dallo storico centro popolare chiuso forzatamente nel 2009 con uno sgombero, all’interno del Monastero dei Benedettini di cui cura la fruizione. “Premetto però – spiega Mannino – che tutte le considerazioni che farò di seguito sono assolutamente a titolo personale, e non riguardano in alcun modo la posizione delle organizzazioni con cui ho lavorato o lavoro tutt’ora”.
A pensarti adesso, impegnato nel mondo culturale tramite una associazione come Officine Culturali, che peraltro insiste sullo stesso quartiere, come vedi quella esperienza che hai definito politica? Esperienza che hai lasciato nel 2005, ma come mai?
“Insomma, ho messo piede all’Antico Corso nel ’92 e ancora non me ne sono andato… Per me la militanza era certamente un fatto ideologico ma anche uno strumento per creare opportunità sociali, organizzarmi con le persone con cui avevo deciso di condividere quella esperienza per produrre luoghi e occasioni di consapevolezza, coesione e rivendicazione. Quella è stata una fase della mia vita importantissima, che ho dovuto interrompere nel 2005 per una lunga e brutta vicenda familiare, vicenda che mi ha fatto riflettere sulla finitezza della vita. Alla fine riprendere i ritmi della militanza per me è stato praticamente impossibile. Non ce l’ho fatta. Ma non sono riuscito a mancare all’appello la notte dell’assurdo sgombero dell’ottobre del 2009, per stare il più vicino possibile ai miei compagni di una vita.
Oggi cerco di lavorare su progetti che abbiano la possibilità di produrre impatti sociali in tempi più ristretti: magari non mirano a modificare le strutture profonde dei nostri sistemi sociali (onestamente credo di non esserne capace), però sono ancora una volta strumenti per creare consapevolezza e coesione, le basi di una rivendicazione lucida e di un atteggiamento proattivo e solidale di guardare al futuro. Vedo nella fruizione e nella produzione culturale non un orpello per cultori esperti o una nuova linea di business, ma un potente strumento per apprendere da dove veniamo, comprendere e agire il presente che viviamo, e intraprendere nuove forme di costruzione di futuri diversi. Con il mio modesto contributo e con il mestiere che ho imparato a fare vorrei riuscire a lasciare a questa città una occasione e qualche strumento in più per decidere cosa fare del proprio futuro, vivendo meglio questo presente: io mi auguro che sia una opzione socialmente inclusiva e sostenibile, basata sulla solidarietà e la consapevolezza e non sulla paura e la divisione (tra sessi, tra etnie, tra generazioni, tra poveri). Mi piacerebbe vivere quel cambiamento, ma nel frattempo attraverso la mediazione culturale, l’inclusione e la partecipazione e soprattutto grazie ad uno staff straordinario, stiamo provando a seminare quello che potrebbe servire al cambiamento. Faccio un esempio: il Monastero è sempre stato un colosso piantato al centro dell’Antico Corso, e ne ha determinato gioie (ci sono nuove economie e socialità che ne stanno giovando) e dolori (la gentrificazione a seguito della presenza universitaria è ormai storia consolidata): eppure oggi è anche una risorsa, uno spazio accessibile per studenti, liceali, abitanti storici, bambini, viaggiatori. Il suo utilizzo per attività di ogni genere aumenta esponenzialmente, alle volte in maniera spontanea (che bello!), molte volte in maniera organizzata (alle volte anche in maniera conflittuale). Non è merito nostro, ma noi abbiamo certamente dato un contributo. Questo è un punto davvero importante”.
Hai fornito una data di nascita precisa per l’Experia: cosa portò ad aprire un centro sociale nuovo? Chi eravate, un gruppo politico di giovani o altro? Cosa era un centro sociale per un ragazzo del 1992?
“Venivamo dalle esperienze del Guernica di via Cervignano prima (tre anni) e di viale Rapisardi poi (tre mesi), ambedue sgomberate. Il Guernica era un centro sociale “classico” che si trovava in un quartiere molto borghese: uno “spazio liberato” che ospitava tutte le forme di cultura alternativa e antagonista: musica punk, graffiti, laboratori creativi, sala prove, centro di documentazione anti-imperialista, inziative di solidarietà internazionale, antiproibizionismo, ecc. Ma già nell’ultimo anno di vita del Guernica si sentiva il bisogno di un legame più forte con la città e il territorio, che si concretizzò con la solidarietà ai terremotati del 1990 del centro storico (principalmente Antico Corso), da un anno negli alberghi e per questo in protesta. Il gruppo che trasmigrò all’Experia era molto variegato, e i giovani (io avevo 19 anni) sentivano parzialmente superata l’esperienza dello spazio liberato. Tutti volevamo avere un ruolo più incisivo su quelle parti di città che esprimevano istanze sociali più marcate, conflittuali. Io avevo anche smesso di suonare nella band per cui avevo messo piede al Guernica per la prima volta… L’Experia doveva essere solo una occupazione temporanea, ma incisiva perché in un quartiere popolare denso di contraddizioni. Poi siamo rimasti lì per 18 anni circa“.
Quanti centri sociali c’erano a Catania? Erano tutti “di sinistra”, c’era una coscienza sociale simile a quella di oggi? Era il 16 maggio 1992. Pochi giorni dopo ci sarebbe stata la strage di Capaci…
“C’era l’Auro, ci sarebbe stato poi il Vulcano (vicino la facoltà di Giurisprudenza). L’area era comunista/antagonista/anarchica e libertaria. Erano gli anni 90, si sentiva ancora l’eco del riflusso che aveva interessato il decennio precedente (gli 80, quelli dentro cui molti di noi erano diventati adolescenti e si erano formati) dopo le dure lotte degli anni 70, fino al durissimo 1977. Noi sentivamo un bisogno di concretezza molto forte. Non è un caso che in poco meno di dieci anni l’Experia abbia aperto più alle famiglie e ai giovani studenti che agli “alternativi”, che sia passato da “centro sociale” a “centro popolare”, che abbia derubricato la lotta antiproibizionista come battaglia di minore interesse, arrivando a chiedere ai giovani partecipanti di non consumare neanche droghe leggere dentro il centro, perché frequentato da famiglie e bambini che non volevano condividere quelle pratiche (cosa assolutamente rara tra i centri occupati di tutta Europa), che abbia assunto come questioni centrali il diritto all’abitazione, al lavoro dignitoso, ai servizi sociali. Non è un caso che l’Experia sia stato il promotore nel 2000 della nascita del Comitato Popolare Antico Corso, condiviso con decine di abitanti.
Fai bene a ricordare le stragi: noi abbiamo vissuto soprattutto gli effetti sulla città, il cui controllo ha subito un profondo scossone dopo le ondate di arresti per mafia degli anni successivi. Ti ricordo che in quegli anni è cominciata una tregua delle faide mafiose, a cui è probabilmente seguita una riorganizzazione capillare territoriale. Abbiamo ricevuto moltissimi attacchi, tra cui un devastante incendio di cui non si è mai conosciuto l’autore. Per noi, con noi, hanno però sempre risposto le famiglie dell’Antico Corso, gente che alle 5 del mattino va a lavorare onestamente e che quando rientra trova quartieri senza alcun servizio sociale se non privato. Con loro, con le donne, gli uomini e i bambini del quartiere abbiamo sempre risposto agli attacchi, che fossero di matrice mafiosa o fascista: con il sorriso, con gli attrezzi da lavoro, con la fatica e soprattutto con la partecipazione. Nel frattempo organizzavamo dei servizi semplici, autogestiti: ma ci sembrava necessario che l’Experia fosse una “casa” pubblica del quartiere, uno spazio sicuro dove crescere e confrontarsi”.
Dall’esistenza per ragioni sociali alla “ragione sociale”? La trasformazione di realtà dal basso in soggetti del Terzo Settore è praticabile secondo te? Si tratta di un percorso in parte fatto dai Briganti Librino ad esempio, partiti dall’esperienza del centro Iqbal Masih nello stesso periodo dell’Experia.
“Certo, lo è. Le associazioni di persone, anche in forma di impresa sociale, hanno finalità sociali. Se poi riescono anche a sostenere economicamente le proprie attività non può che essere un bene. C’è da augurarsi che la riforma del Terzo Settore appena licenziata dal Governo metta nelle condizioni il milione di lavoratori di questo settore (non siamo pochi!) ad avere condizioni di vita e di operatività più dignitose. Ma qui subentra una questione fondamentale. Il Terzo Settore è spinto da bellissime e fortissime energie, da visioni per le persone e per i futuri: ma non può fare tutto da solo. Mi spiego meglio: se pensiamo che la sua sostenibilità, a fronte di obiettivi sociali chiari e valutabili, possa essere tutta a carico degli operatori o peggio ancora degli utenti, stiamo facendo un grande errore. Il settore sociale (e la parte culturale a finalità pubbliche e sociali) può trarre grandi energie, visioni e professionalità dal Terzo Settore. Ma lo Stato non deve giocare la carta dell’innovazione sociale per fare un passo indietro e lasciare che tutto dipenda dal mercato privato. Questa visione neo-liberista è pericolosissima e nasconderebbe lo smantellamento del welfare pubblico. E’ lo Stato che deve cambiare approccio: decidere a quale futuro invita i cittadini e le organizzazioni a contribuire (visione), mettendo quali risorse in quali settori e quali forme e tempi (strategie), e chiedendo al Terzo Settore di diventare suo partner di quelle visioni e quelle strategie con delle azioni specifiche mirate ad obiettivi strategici coerenti. Esempio? Se la povertà educativa è uno dei mali che rischia di indebolire la consapevolezza e la coesione dei futuri cittadini, molteplici devono essere le risorse che sostengano le azioni educative e culturali per il suo contrasto (si è partiti con il bando Conibambini, ma ancora è da verificare la ricaduta sul lungo periodo). Finanziamenti a pioggia? E perché no: basta non chiedere più la mera rendicontazione ma pretendere per le azioni sostenute una condivisa valutazione di impatti sociali precedentemente immaginati o rilevati in corso d’opera. Statalismo? Neo-statalismo per un welfare ibrido a conduzione pubblica. Perché lo Stato siamo noi, oppure lo Stato non esiste”.
Se non fosse stato per lo sgombero forzato del 2009, cosa sarebbe oggi l’Experia? I locali riammodernati non sono ancora utilizzati dall’università di Catania.
“Oggi sarebbe un Centro Popolare frequentatissimo (ti ricordi quanta gente alla festa dopo lo sgombero? Una via Plebiscito stracolma…), con persone ancora più mature e impegnate con gli abitanti vecchi e nuovi. Ma non è così perché è stato sgomberato, ristrutturato e lasciato chiuso. Fa riflettere che non sia utilizzato, a fronte della carenza cronica di spazi culturali o aggregativi. Forse questa città dovrebbe interrogarsi meglio sulle sue politiche sociali, magari coinvolgendo chi ha esperienze anche informali e quotidiane. Ci sono un sacco di segnali che sfuggono, come l’arte di strada, il nuovo rap o la neomelodica tra i ragazzi. Associazioni che fanno cose bellissime e continuative come il Comitato Antico corso, quelli di San Berillo, i Briganti, i Ragazzi della Piazzetta, il Liotro, quelli di Gammazita, il GAPA, e tantissime altre. Si fa teatro nelle scuole e nelle compagnie amatoriali. Si danza per strada, si fanno film, si riaprono spazi. Insomma, esiste un fermento sociale che è difficile da incasellare e schematizzare, ma c’è. L’Experia rappresentava un pezzo di quel fermento. Chiuderlo è stato un grave errore, la trasformazione di una questione sociale e politica in un fatto di ordine pubblico o di mera burocrazia. Peccato”.